Haiti è un po' un'occasione perduta. È indipendente da 200 anni, con un'interruzione di soli vent'anni; confina con la Repubblica Dominicana, un paese emergente di discreto successo; ha un livello di spese pubbliche, e quindi di tasse, relativamente basso (un miliardo di euro, il 20% del Pil); è aperta al commercio internazionale più di un'economia a rapida crescita, e molto protetta, come il Vietnam. Non ha seguito in modo ortodosso tutte le ricette che, secondo la saggezza comune tra gli economisti, potrebbero assicurarle la crescita, ma la possibilità di cogliere qualche opportunità, almeno in astratto, non le è mancata.
Non è andata così. Anche prima del terremoto Haiti non si limitava a languire nella miseria, faceva addirittura passi indietro. Il paese è davvero molto povero: a Port-au–Prince il reddito medio - tenendo conto del potere d'acquisto - è di 1.300 dollari l'anno, tre dollari e mezzo al giorno, mentre nella non lontana Santo Domingo si passa a 8.600 dollari, sia pure tra forti diseguaglianze economiche. Se il terremoto, pur di notevole vigore, ha fatto così tanti danni non risparmiando né il palazzo presidenziale né il parlamento, è stato anche a causa della povertà del paese.
Ora più che mai, allora, Haiti sembra condannata a restare povera. Ma esistono davvero paesi così? «Che su alcune economie pesi una condanna definitiva è difficile da dire, ma sicuramente ci sono alcuni fattori che indeboliscono le capacità di sviluppo - spiega Alessandro Volpi, docente di Storia contemporanea all'Università di Pisa -. Penso all'assenza di rapporti con i mercati, per esempio quando non c'è sbocco sul mare o, all'opposto, quando c'è un'eccessiva esposizione dalla volatilità di alcuni prezzi. A questo si può aggiungere l'assenza di risorse naturali o la dipendenza da un'unica materia prima». La maledizione delle risorse è ben conosciuta dai paesi ricchi di materie prime ma incapaci di creare ricchezza: è spesso la causa di guerre, tensioni sociali, corruzione, e irresponsabilità dei governi che non devono tener conto della volontà dei cittadini, esonerati dal versamento delle tasse.
È un fenomeno diffuso ma non generale, e questo rende difficile adottare quelle forme di determinismo geografico care per esempio a Jeffrey Sachs, economista della Columbia University. Anche i diversi destini di Haiti e Repubblica Domenicana sono un buon esempio di come si possano avere esiti molto differenti da una situazione di partenza uguale. Un analogo discorso può essere fatto per la cultura che per studiosi come lo storico David Landes o la giurista Amy Chua, è uno degli elementi fondamentali che differenziano i paesi o le popolazioni ricche da quelle povere.
Allo stesso modo Haiti sembra un caso da manuale per dimostrare - come sostiene la tesi un po' provocatoria ma acuta di William Easterly, economista della New York University - che aiuti e prestiti non servono o almeno hanno effetti molto sopravvalutati. Il paese non è stato certo abbandonato a se stesso: concedendo sostegno finanziario in cambio di riforme, il solo Fondo monetario internazionale è intervenuto 22 volte a salvare il governo da altrettante crisi economiche, solo per vederlo ripiombare di nuovo nel baratro.
Più complicato è valutare il ruolo delle istituzioni. «È sempre difficile capire se sono l'effetto o la causa», spiega Eliana La Ferrara, docente di Economia dello sviluppo all'Università Bocconi. In ogni caso, aggiunge Volpi «i Paesi che hanno vissuto più a lungo sotto una sovranità economica limitata e non hanno potuto avere una politica monetaria ed economica autonoma sembrano bloccati. Forse incide anche l'assoluta mancanza di democrazia o la presenza di una democrazia malata».
Ancora una volta Haiti è un test importante per queste teorie. Anche se, come dicevamo, è indipendente da 200 anni (a parte l'occupazione militare degli Usa dal 1915 al 1934), non è riuscita a costruire un sistema politico stabile: le élites al potere sono sempre state in lotta tra loro, spesso ottenendo sostegno politico dai più diseredati, e i colpi di stato sono stati numerosissimi. Il risultato è l'incapacità di far rispettare le leggi - quasi impossibile far onorare un contratto - e il dilagare della criminalità e della corruzione: si preferisce redistribuire, in modo predatorio, la (poca) ricchezza, invece di produrla. Nella vicina Repubblica Domenicana, la situazione è sicuramente diversa, ma non fino al punto da spiegare completamente i differenti esiti tra i due paesi: «È vero: c'è stato un passaggio alla democrazia molto prima - aggiunge La Ferrara - sono state applicare politiche economiche migliori e sono stati sviluppati i servizi. Anche qui, però, la corruzione è elevata e la qualità delle istituzioni è bassa».
Una teoria unica sembra impossibile. Gli studiosi, anche di scuole diverse, iniziano allora a pensare che l'approccio "macro", sistemico, sia inadeguato. «Anche chi si occupa di aiuti ha molto spostato l'attenzione sugli interventi a livello di comunità. Anche per garantire l'accountability, la responsabilità di tutti gli attori», spiega La Ferrara. «È meglio procedere con interventi diversificati, con poca spesa e molta attenzione alla realtà locale - aggiunge Fabrizio Eva, geografo all'Università Ca' Foscari a Treviso - Occorre un accumulo lento e costante nel tempo» di strutture economiche e sociali. «Penso ai sistemi utilizzati da certe forme di adozione a distanza in cui si danno finanziamenti ad operatori che operano nelle comunità, o nel microcredito: sono sistemi in cui si concedono piccole cifre costanti, con reti di sicurezza» per garantire i risultati.
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