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LE ISTITUZIONI DEL'ARTE / Destra e sinistra per me pari sono: manca a tutti la cultura della cultura

di Gioacchino Lanza Tomasi

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17 Gennaio 2010

Un paio di settimane fa Vincenzo Cerami, scrittore, come si è firmato umilmente sull'Unità, si è chiesto se «il nuovo assetto messo insieme da D'Alema-Bersani abbia un qualche interesse per la cultura e per l'arte del nostro Paese». E la riposta è stata: «Senza esitazione: no. Perché la sinistra né più né meno della destra non possiede la cultura della cultura». A una persona della mia generazione questa constatazione è giunta come conferma del malessere in cui si trova più di un elettore della sinistra.
L'intervento di Cerami prendeva le mosse da una protesta ormai endemica dei dipendenti delle fondazioni lirico-sinfoniche. Ma il problema non è quello di difendere 6mila fra i più tutelati dipendenti pubblici della nostra repubblica - tanta è l'occupazione del comparto - quanto di ripercorrere cosa ha significato la parola cultura nel Pci degli anni Sessanta.
Quando veniva varato lo statuto dei lavoratori, la sinistra intera soffriva di un ritardo progettuale nella comprensione dello sviluppo industriale. L'analisi marxiana del plusvalore risaliva alle origini della fabbrica reso possibile dalla macchina a vapore. L'industria offriva ai compratori prodotti in quantità impensabile al tempo dell'artigianato. Il profitto era certo, come lo è stato di recente il profitto nelle tecnologie informatiche. Donde la teoria di un plusvalore assicurato che andava ridistribuito. Al diffondersi delle tecnologie si entra nell'era della concorrenza. Ora la fabbrica può fallire, e stiamo attraversando una congiuntura dove spesso fallisce. Lo statuto dei lavoratori si è appoggiato su queste premesse. La tutela a prescindere dall'esistenza del plusvalore. Le conseguenze, come ritardo storico, sono sotto gli occhi di tutti.
Differente era invece la presenza della sinistra nel campo culturale. Essa discendeva dalla tesi dell'intellettuale organico gramsciano. Il rapporto con gli intellettuali e gli artisti si trasformò in un laboratorio di fermenti critici, di partecipazione al valore speculativo dell'attività artistica. La sinistra, nel connaturato anticonformismo della ricerca artistica, nella denuncia del mondo mercificato portata avanti dalla scuola di Francoforte, trovò allora sostegno per affrancarsi dal fondamentalismo, per uscire dalla logica degli schieramenti che dividevano l'Europa. La presenza di Giorgio Napolitano alle prime di Nono e Abbado testimoniava l'attenzione della sinistra a un mondo non omologato, la speranza che l'arte potesse anche correggere la politica, la deriva di un politica tentata dalla sola ricerca del consenso.
Si cercava allora uno spirito nelle cose, la storia della creatività artistica era la storia del diverso. Era la storia di singoli e di gruppi che attestavano la nostra ansia metalinguistica o magari metafisica. Si leggevano le grandi storie delle civiltà: Huizinga, Chastel, e poi Panofsky e Gombrich. Si citava Mondrian: «Nessun pittore ha dipinto un albero perché ha visto un albero, ma perché ha visto come altri pittori hanno dipinto un albero». L'universo fisico non soddisfa la nostra conoscenza, e senza una ricerca continua su quel che l'universo fisico ha rappresentato nella storia dell'uomo non si rende giustizia alla sua natura duale: soggetto alla legge della causa ed effetto, ma a questa contestualmente ribelle.
Nell'Italia telecraticamente governata, come direbbe Vanni Sartori, cosa resta della nostra antica illusione? A sinistra poco o niente. Quando il sindaco di Bologna (Bologna!) sceglie come assessore alla Cultura Nicoletta Mantovani, seconda moglie di big Luciano si capisce che la serie delle vittorie elettorali di Berlusconi non è conclusa. Venditore impareggiabile e inimitabile, ha costretto l'avversario a battersi sul proprio terreno. Cosa propone l'assessore alla Cultura? Un memorial concertistico Pavarotti che si incaglia in un mare di impicci. Fortuna vuole che in questi giorni radio Classica abbia trasmesso un Trovatore anni Settanta con Pavarotti dal Met diretto da James Levine. Ho risentito la voce adorata, il suono e la scansione di Luciano prima dell'ippica e dei concerti connessi. Il sindaco afferma che la Mantovani sarà un mago degli eventi. Ma non sa quello che fa. Mentre Berlusconi sa quel che fa quando mette in campo la Carfagna.
In tanto grigiore al ministero per i Beni culturali si vive una stagione bonapartista senza che la sinistra se ne accorga. Vi è un manager per la gestione economica delle antichità e belle arti, la gestione delle fondazioni liriche è data a vari manager che non hanno alcuna idea del prodotto da smerciare, in barba anche alla legge che parla quantomeno di esperti del settore, e si parla di una riforma senza sognarsi di effettuare una ricognizione sulla gestione dello spettacolo musicale nei principali paesi della comunità europea. Dati e cifre sono scomodi. Nel 2009 le sofferenze delle fondazioni sono a quota 290 milioni, dati forniti dal ministro nella audizione in Senato, ma sempre 28 ore lavorative a settimana per i professori d'orchestra. Quando le ore lavorative delle orchestre sono 20 per le file e 16 per le prime parti alla Scala ed altrove.
Eppure in tanto grigiore Milano si distingue. Quando la Scala riuscì a perdere in un sol colpo il più italiano dei grandi direttori d'orchestra e il manager più lodato dell'area socialista, Berlusconi, cui fa difetto la prudenza della parola, affermò che per lui il pozzo senza fondo della Scala poteva anche andar a farsi benedire. Ma Bruno Ermolli si fece dar la delega, riempì d'acqua il pozzo (7-10 milioni di perdita l'anno e molto più in apporto capitale) e invece di prendere un manager decise che il sovrintendente sarebbe stato scelto fra i grandi professionisti europei. Stéphane Lissner potrà piacere o non piacere, ma quando impagina un concerto in onore di Placido Domingo propone il primo atto della Walküre con Nina Stemme, la miglior voce wagneriana del momento, e lo dirige Daniel Barenboim.
  CONTINUA ...»

17 Gennaio 2010
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