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LA MANO VISIBILE / Dite a Obama di studiare il caso Enron

di Alessandro De Nicola

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17 Gennaio 2010

Immaginatevi un mercato in cui vige un oligopolio quasi ferreo con cinque attori principali che offrono molteplici servizi di alto contenuto professionale. I cinque cominciano a inebriarsi del loro successo, fanno troppi soldi e non prestano la dovuta attenzione ai conflitti di interesse e alle procedure di controllo del rischio. Il mercato non è ben presidiato dai regolatori e in nome dell'innovazione le restrizioni si allentano sempre più. Tuttavia, nessuno può permettersi di rallentare la corsa: gli altri farebbero la festa a chi esita, portandogli via i talenti e i clienti migliori. Un bel giorno i nodi vengono al pettine: scoppia una crisi che affonda la più venerabile istituzione della cinquina e per due anni è una turbolenza inaudita. Quiz: di chi stiamo parlando? Delle grandi investment bank e di Lehman Brothers? Beep. Risposta sbagliata. Abbiamo descritto le Big Five della revisione prima dello scandalo Enron: Andersen, Ernst & Young, Deloitte, Kpmg e Price.
Dopo l'esplosione del bubbone Enron si avviò un periodo penoso di sfiducia nei conti di moltissime società quotate e di fallimenti: Tyco, WorldCom, GlobalCrossing, Adelphia solo per citarne alcune. Il finale col botto fu italiano giacché nel dicembre del 2003 emerse il crack Parmalat. Le iperboli si sprecarono: anche allora si parlò di "fine del capitalismo" e l'avidità dei manager nonché i loro sistemi di remunerazione vennero messi sotto accusa con la veemenza con la quale oggi si stigmatizzano i banchieri.
Come reagirono le istituzioni? In fretta e - con il senno di poi - abbastanza bene. In meno di otto mesi fu approvata la famosa legge Sarbanes-Oxley, la quale prevedeva una serie di numerosi controlli contabili e gestionali all'interno delle società, ne responsabilizzava il management, rafforzava in modo draconiano l'apparato penal-sanzionatorio (fino a 25 anni di reclusione per falso in bilancio), concedeva maggiori poteri alla Sec, istituiva un organo di controllo delle società di revisione e poneva loro numerose incompatibilità tra attività di revisione e di consulenza al fine di ridurre i conflitti di interesse.
All'epoca alcune di quelle misure mi parvero eccessivamente dirigiste ma bisogna ammettere che hanno funzionato. Le superstiti Big Four son più ricche di prima, ma di grosse truffe riguardanti società quotate non ce ne sono più state e tantomeno crisi sistemiche. Il legislatore ebbe l'accortezza di riformare il sistema agendo sia sul mercato della domanda (le società quotate, che dovettero cambiare approccio ai controlli) che dell'offerta (i revisori, sottoposti a vigilanza e pene severe e che rinunciarono a lucrose attività).
Nessuno si sognò di pompare soldi, tassare gli extraprofitti di qualcuno degli attori, far passare sotto il controllo pubblico società prima private, in una totale assenza di spiegazioni coerenti su quel che era successo e di un piano comprensibile e logico su come rimediare alle carenze evidenziatesi. Quando Obama l'altro giorno ha annunciato la tassa sulle banche (solo alcune) ha spiegato come questa misura dovrebbe ridare certezze ed efficienza al mercato finanziario? No, ha dichiarato che i bonus erano osceni e ha consegnato una clava propagandistica ai Democratici in difficoltà per condurre le elezioni mid-term di novembre: «Dagli alle banche!».
Grande capacità di entusiasmare i seguaci, scarsa esperienza ed efficacia concreta. Barack inizia ad assomigliare molto alla sua pugnace fustigatrice, Sarah Palin.

adenicola@adamsmith.it

17 Gennaio 2010
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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