Ansia, incertezza, imprevisto, progresso zero. Date un nome al decennio «00» che si chiude tra 45 giorni, ha chiesto il New York Times. Fatale che, complice l'ombra della crisi, gli slogan usciti dalla penna di David Segal e degli opinionisti interpellati suonassero piuttosto cupi. Visti dalla East Coast, i dieci anni che si sono aperti con un Millennium bug sventato tra molte ansie, proseguiti con la fine dell'innocenza dell'11 settembre e al traguardo sul filo di una crisi ancora nel guado, lasciano poco spazio alla speranza. Così tra i titoli papabili, ecco il «decennio delle occasioni mancate» (vedi alla voce terrorismo, ambiente, mercati finanziari) scelto dal futurologo Paul Saffo; o la «decade del capovolgimento» come suggerisce Walter Isaacson, già editor di Time, che ricorda un avvio all'insegna dell'ottimismo (crollo del muro di Berlino) piegato precocemente dalla bolla delle dot.com e da Enron in una curva a gomito che dura fino ai chapter 11 dei giorni nostri.
Insomma, da Washington e dai suoi umori tendenti al grigio è la parola disincanto a candidarsi a epitome del decennio. La conferma arriva da Paolo Legrenzi, professore di Psicologia cognitiva all'università di Venezia, di rientro da Washington per una riunione della World Bank in materia di educazione finanziaria, dove ha partecipato in rappresentanza dell'Abi. «Negli Usa la sfiducia ha toccato i minimi a febbraio», spiega. «Secondo una statistica su un panel di opinion maker finanziari la maggioranza ha risposto che nel 2010 la Borsa andrà peggio. Non accadeva da dieci anni».
Mercati in affanno, oro preferito al dollaro, tassi di disoccupazione che viaggiano al 10 per cento. Il sogno americano si è sgonfiato? Certo, è presto per dirlo. Eppure le generazioni dei figli partoriti dalla new economy – altra statistica recente – non sono più certe di stare meglio dei padri allevati sotto il segno del fordismo. E l'idea di un progresso illimitato e continuo pare infrangersi oggi su una grande muraglia.
«I l disincanto degli anni "00" è peggiore di quello che seguì al crollo del ‘29 – continua Legrenzi, autore tra l'altro di Psicologia e investimenti finanziari (ed. Il Sole 24 Ore) –. In questo caso non c'è solo la prospettiva di una riduzione degli standard di vita ma anche un beneficiario sotto gli occhi di tutti. Un convitato di pietra, silenzioso, che sta prendendo forme inquietanti nell'immaginario collettivo. Si chiama Cina. Prima ha pagato il debito estero degli americani, consentendo loro di vivere tra Suv e case grandi come campi di calcio. Oggi può passare alla cassa, facendo incetta di materie prime nel mondo». Di sicuro Pechino riscuoterà con cautela: seppellire il dollaro come moneta globale vuol dire mettere a rischio una quantità perfino difficile da quantificare di Treasury Bond ancora in pancia a enti pubblici e imprese private della nuova potenza mondiale.
In ogni caso, eccolo un possibile titolo alternativo a quello che fa leva sul disincanto. Basta spostarsi dalla East Coast al Far East e quello che va a chiudersi potrebbe facilmente definirsi «Il decennio dei duellanti». Giganti per ora in fase di studio, di fair competition in attesa di un'era di autentica confrontation. «L'immagine chiave – spiega Gianni Toniolo, che in questi mesi si divide tra una cattedra di Storia economica a Tor Vergata e una oltreoceano alla Duke University – è di tre giorni fa: Obama e Hu Jintao che sul protocollo di Kyoto frenano sulla riduzione di CO2 in nome di superiori interessi nazionali. Vale ancora la pena convocare il vertice di Copenhagen il 7 dicembre? Non sarà già tutto deciso?».
Cooperanti prima che duellanti, comunque. «Durante la crisi, Pechino si è allineata alle politiche espansive di stampo keynesiano di Washington – prosegue Toniolo -. E i G-20 di questi mesi hanno di fatto ratificato le scelte dei due colossi, nel vuoto pneumatico di una politica europea degna di nota».
L'Europa, appunto. «Questa era sarà ricordata come quella in cui il Nord ha soppiantato il Sud», ha dichiarato al New York Times l'economista Carmen Rheinart. Nord e Sud del mondo, da sempre metafore di ricchezza e povertà, sembrano però lasciare il posto all'asse simbolico Ovest-Est. Saltando quello che vi è in mezzo. «Di certo – chiarisce Giuseppe Berta, storico dell'industria e professore all'università Bocconi di Milano - non sarà il decennio dell'Europa. L'Unione esiste come moneta, non come soggetto politico». Guardando al tema da Bruxelles (meglio: da Parigi, Londra o Roma) lo slogan giusto sarebbe dunque «Il decennio dello stallo». «Stallo delle nostre medie imprese a forte vocazione internazionale oggi gelate dalla crisi – continua Berta -. Stallo dell'Europa, convitato di pietra ai vertici internazionali, privo di iniziativa politica. Stallo della regolamentazione internazionale, visto che dopo il crollo dei mercati si è semplicemente aumentata la liquidità da cui si alimenta la stessa speculazione». Con il rischio che riprenda anch'essa, in parallelo alla corsa dei listini, per ora ai primi passi della rincorsa.
Disincanto. Duellanti. Stallo. Tre parole chiave per il decennio a secondo dell'angolo da cui si guarda: Washington, Pechino o Bruxelles. Marta Dassù, direttrice di Aspenia e dell'Aspen Institute Italia, ascolta le proposte del nostro panel e sintetizza: incertezza. «I destini di Europa e Stati Uniti - spiega - procedono per necessità allacciati. E il filo rosso che li ha legati in questi anni è appunto stata l'insicurezza, politica, economica, finanziaria. Pechino marcia su altri schemi, per la Cina è stata la decade dell'affermazione, della crescita a tassi del 10% all'anno, della consacrazione anche geopolitica. Per ora è impossibile sintetizzare tutto in uno slogan spostandosi tra fusi orari. Quando avverrà, il mondo sarà davvero globalizzato. E forse più sicuro».