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VERTICE DELLA FAO / Contro la fame tanti impegni ma niente soldi

di Ugo Tramballi

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17 Novembre 2009

Sfogliando le sei pagine e mezzo di testo, i cinque principi e i 41 articoli della sua dichiarazione finale, la domanda istintiva è: che bisogno c'era di un altro vertice mondiale della Fao sulla sicurezza alimentare, un anno dopo uno simile a questo e quattro mesi dopo un G-8 all'Aquila? Il voto all'unanimità che chiude il summit già a metà della sua prima giornata, nonostante ce ne siano altre due da svolgere, sembra una frettolosa ritirata dal problema.
«Abbiamo parlato di povertà talmente a lungo che la calamità ora è scoprire che non ci spaventa più sapere di bambini malnutriti e di gente che in Africa muore di fame», constata Njongo Ndungane, arcivescovo di Capetown e fondatore di African Monitor. «La voglia di combattere la fame sta rapidamente svanendo e il senso dell'urgenza si è completamente perso». È esattamente l'idea che ha dato il vertice della Fao: la consuetudine, per quanto angosciata, al problema.
Dice la dichiarazione finale nel suo primo capitolo: «Rafforzeremo i nostri sforzi per realizzare entro il 2015 gli obiettivi del Millennium»: cioè ridurre del 50% il miliardo di affamati del 1997 i quali nel frattempo sono diventati almeno 100 milioni di più. Anche questa statistica primaria sembra incerta, qui al vertice. Qualcuno sostiene siano 200 milioni.
«Le cause della crisi alimentare sono chiare, i modi per risolverla conosciuti: abbiamo bisogno di un programma di lavoro». Hosni Mubarak ne sa qualcosa. Anche il conflitto arabo-israeliano è così: tutti conoscono la soluzioni, nessuno le vuole applicare. Ma il documento finale del vertice a fatica è quel programma di lavoro che invoca Mubarak: è solo l'ennesima somma di principi. Gli sherpa hanno trattato, i negoziatori sintetizzato, i politici verificato e i leader rapidamente ratificato qualcosa che sapevano essere ormai irrealizzabile. Perché ad andar bene fra sei anni, nel 2015, si riuscirà a fermare la moltiplicazione dei poveri, non a dimezzarne il numero.
La risoluzione ha l'umiltà di non ricordare un'altra data, quella del 2025, quando il mondo si dovrebbe liberare del tutto dall'ingiustizia della povertà. Finge di credere ancora all'obiettivo del 2015, evita almeno di chiedersi quello che accadarà dopo. Per questo le sei pagine e mezzo della dichiarazione non parlano di soldi. Jacques Diouf, il direttore generale della Fao, aveva fatto la cifra di 44 miliardi necessari all'assistenza allo sviluppo: «È una piccola cifra se consideriamo i 365 miliardi di aiuti ai produttori agricoli dell'Ocse» che per di più ora anche i paesi in via di sviluppo devono contribuire a dare. Ma di questo non c'è traccia nel testo. Come dice Sergio Marelli, presidente dell'Associazione Ong italiane, è «il prezzo pagato per ottenere il voto favorevole di Usa, Canada, Australia e degli altri paesi del G-8».
L'altroieri, prima del vertice, il presidente brasiliano Lula da Silva aveva guardato il problema anche da un'altra prospettiva: i paesi ricchi non danno i soldi a quelli poveri, constatava, ed è comprensibile. Lula poneva il problema della governance. Se il Brasile sta lottando con efficacia contro la povertà è anche perché ha realizzato le poltiche sociali necessarie. Non si può dire che questo stia accadendo in molti altri paesi in via di sviluppo. È la questione su cui al vertice si è soffermato anche il presidente del Senato Renato Schifani che all'ultimo momento ha sostituito Giorgio Napolitano.
Fra i 60 capi di stato e di governo venuti a Roma non ci sono quelli decisivi e ne mancano molti di importanti. C'erano Silvio Berlusconi perché è del paese ospitante; Mubarak e Gheddafi perché sono amici di Berlusconi; Lula perché l'anno prossimo potrebbe prendere il posto di Jacques Diouf alla Fao. Nel breve discorso di Ban Ki-moon, il segretario Onu, l'esortazione "we must", il senso risolutivo di dobbiamo, usata 12 volte, è rivelatrice di una debolezza. L'altroieri a Pechino solo due uomini, l'americano Barack Obama e il cinese Hu Jintao, hanno deciso che al prossimo vertice sul clima di Copenhagen non ci sarà accordo. E a luglio all'Aquila, pur barando sulle reali disponibilità economiche, 20 leader sono riusciti a fare cose più concrete contro la fame nel mondo di quante ne stiano facendo le oltre 100 delegazioni qui a Roma.
Forse ha ragione Jacques Diouf: «Noi della Fao offriamo a 193 leader l'opportunità di incontrarsi e di essere posti di fronte a fatti, cifre, economie, conseguenze sociali ed etiche; diamo l'opportunità ai giornali di parlarne, perché spieghino alle opinioni pubbliche, facciano pressione sui parlamenti e sui governi. Di più un summit non può fare».

17 Novembre 2009
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