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Classi dirigenti / L'inutile revival della retorica anti-élite

di Andrea Romano

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17 settembre 2009

La polemica contro le classi dirigenti è un ingrediente antico della nostra storia nazionale, destinato a farsi più pungente nelle fasi di crisi e confusione come quella che stiamo vivendo. Una crisi che resta politica non meno che economica, perché al netto di ogni dietrologia è ormai evidente che la lunga transizione italiana non sembra ancora aver trovato quell'approdo che le elezioni del 2007 avevano lasciato immaginare.
Non è solo la tentazione sempre più diffusa di guardare la politica dal buco della serratura a suggerirlo, ma anche il potente ritorno della retorica antielitaria e la sua diffusione ai piani alti delle istituzioni democratiche. In questi ultimi giorni è accaduto più volte di ascoltare autorevoli rappresentanti di governo aprire il fuoco della polemica contro questa o quella porzione di classe dirigente, scegliendo talora i magistrati o gli economisti talaltra i banchieri o persino i cineasti in un procedere per categorie all'ingrosso che non può né vuole percorrere la via del ragionamento di merito.

C'è in questo il ritorno di un elemento tradizionale del berlusconismo, che fin dai suoi esordi ha esibito una carica anti-establishment che ha saputo inserirsi con acume e spregiudicatezza nel blocco dei meccanismi di formazione delle classi dirigenti che l'Italia degli anni Novanta ha conosciuto in forme tanto drammatiche.
Gli anni passano per tutti, compreso il berlusconismo. E ascoltare un così pugnace revival antielitario quindici anni dopo quel lontano 1994 induce qualche perplessità. Non solo perché lo stesso berlusconismo non può esimersi dall'essere considerato a pieno titolo produttore e contenitore di classi dirigenti che ormai da anni si misurano legittimamente con il potere e la responsabilità pubblica. Soprattutto perché chi esercita un mandato politico in nome e per conto del popolo non può realisticamente pensare di utilizzare questo tipo di schermo polemico per porsi al riparo dalla valutazione pubblica dei risultati del proprio lavoro, per ragioni sia di metodo che di merito.

Il metodo ricorda infatti troppo da vicino il diluvio distruttivo che ha avvelenato la nostra vita pubblica nell'ultimo decennio, quel rifiutare pregiudizialmente la legittimità dell'interlocutore come reazione preliminare a qualunque tipo di critica. O peggio, come reazione ad ogni tentativo di allargare il perimetro della discussione.
Perché qualsiasi attore pubblico, e maggior ragione qualsiasi attore che svolga funzioni di governo, si rafforza nell'individuazione di interlocutori legittimati e si indebolisce nell'irrisione di avversari reali o immaginari. Soprattutto quando a quegli avversari sono attribuiti come uno stigma i contorni dell'appartenenza a una categoria di sapore morale più che politico. Sinceramente non si avverte alcun bisogno di un "giustizialismo di governo" che preluda a un'ordalia tutta basata sui rapporti di forza, mentre il paese attende di conoscere la direzione che prenderà all'uscita dalla crisi economica.

Le ragioni di merito hanno a che fare con la persistenza del blocco nei meccanismi di formazione delle classi dirigenti, che continua ad essere uno dei nostri problemi più gravi.
Altri paesi avanzati hanno conosciuto, come l'Italia, crisi di legittimità nelle leadership politiche ed economiche e ne sono usciti con molto tempo e molta fatica. C'è chi vi è riuscito, come negli Stati Uniti, tornando a guardare nelle università di punta alla ricerca dell'eccellenza politica e intellettuale e chi, come in Francia, sottoponendo a critica serrata un modello tradizionale di formazione delle élites per trovarne un altro con relativa rapidità. Nessun grande paese, tuttavia, lo ha fatto elevando la retorica antielitaria a standard permanente di lotta politica e rinunciando così anche solo a immaginare una soluzione reale a un problema reale.
È esattamente questo il rischio che in queste settimane sembra incombere sulla nostra vita pubblica.

17 settembre 2009
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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