In ogni angolo d'America c'è qualcuno che non ama la Federal Reserve, burocrazia non eletta al cuore del sistema. E negazione della democrazia. Ron Paul, 74 anni, deputato texano repubblicano e libertario che ha fatto della critica alla Fed il fulcro di quasi 40 anni di politica, cavalca l'antica battaglia contro la Banca centrale. Con un libro uscito ieri, comitati di base, iniziative parlamentari che questa volta hanno raccolto l'appoggio di mezza Camera, e più copertura mediatica che in passato, Ron Paul ripete che la Banca centrale non gli piace. Obiettivo: portare la Fed per la prima volta sotto il pieno controllo del Congresso. Non è il primo tentativo, non è temibile più di tanto, ma questa volta sarà un po' meno facile, dati i tempi, rintuzzarlo.
Primo, la Fed ha avuto a suo tempo un parto lunghissimo e travagliatissimo, ultima delle grandi Banche centrali, nata nel 1913 fra le polemiche 20 anni dopo ad esempio della Banca d'Italia, anche se gli Stati Uniti erano allora da una generazione, come Pil, la prima economia del mondo. Secondo, il modello, con viaggi di studio, fu l'Europa, la Reichsbank tedesca soprattutto, oltre che Londra e Parigi, un modello cioè d'importazione, cosa raramente gradita. Terzo, l'opposizione interna alla Banca centrale era stata fortissima, di principio, fin dai primi anni della Repubblica, nel 700, ed ebbe partita vinta (salvo due parentesi) per oltre un secolo, perché di Banca centrale non parla la Costituzione. Quarto e ultimo, questo filone culturale ostile alla Fed non è esaurito, anzi, rinvigorito dalla crisi finanziaria e dal ruolo dominante (e costosissimo) assunto dalla Fed nel salvataggio delle banche da un anno a questa parte, sta facendo e farà più rumore del solito, nonostante alcune evidenti contraddizioni.
Con End the Fed Ron Paul rilancia un messaggio mai abbandonato da 40 anni. Seguace della Scuola austriaca di Friedrich Hayek, Ludwig von Mises e Murray Rothbard, il deputato texano, un tempo medico ginecologo, ritiene che le Banche centrali e la fiat money, la moneta sganciata da qualsiasi ancoraggio aureo o di altro tipo come è il caso dal 1971, siano sostanzialmente inflazioniste. Per soddisfare le necessità dei governi svalutano la moneta, con la "tassa nascosta", l'inflazione. «Un dollaro di oggi vale quattro cents a fronte di un dollaro nel 1913 quando la Federal Reserve venne alla luce». Quindi occorre ridefinire il concetto stesso di dollaro, ancorandolo a una quantità fissa d'oro.
Detto questo, le cose un po' si complicano, perché Paul e i suoi seguaci sanno che un ritorno al gold standard è impossibile, mancando fra l'altro l'oro sufficiente. Propongono quindi, e il libro riprende, una serie di soluzioni un po' vaghe, tra cui altre commodities e una moneta parallela legata all'oro che conviva con il dollaro. È contraddittorio poi che in nome della democrazia si chieda il ritorno a un sistema - l'ancoraggio aureo - inevitabilmente deflazionista, che premia chi ha liquidi e penalizza chi deve guadagnarli. La fiat money, se la politica monetaria è affidabile e prudente, è l'altra faccia, nel 900, della democrazia. Ma certamente è un sentiero stretto.
Ron Paul, che decise di entrare in politica negli anni 70 dopo la fine dell'ancoraggio del dollaro all'oro, rientra in una lunga tradizione, non solo americana, di nostalgia per una moneta governata "in automatico" o quasi dal metallo di riferimento. In più, c'è un filone preciso americano, da Benjamin Franklin a Thomas Jefferson ad Andrew Jackson, quest'ultimo tenace nemico di una Banca centrale che vi fu in America a due riprese tra il 1791 e il 1836, che vede nella banca un sistema di potere delle classi finanziarie e nella fine del tallone aureo lo strapotere di queste classi. Solo il Congresso può riequilibrare il tutto. Nel 1978, anni di crisi, la prima versione della legge Humphrey-Hawkins sul pieno impiego prevedeva il controllo del Congresso sulla politica monetaria.
Il filone di cui Ron Paul è l'ultimo portabandiera, rieletto al Congresso per 11 legislature, è tuttavia marginale. Dagli anni 80 tenace candidato presidenziale, Paul ha raccolto nel 2008 circa 43mila voti, lo 0,03 per cento. Questa volta però l'ennesimo tentativo di mettere la Fed sotto controllo, il Federal reserve transparency act del febbraio scorso, ha l'appoggio di 289 deputati su 435. Barney Frank, presidente della Commissione finanza, la tiene a bagnomaria. Nella difficile ipotesi di un sì, ci sarebbe da superare il Senato, dove le cose stanno diversamente, e il sicuro veto presidenziale. Ma il momento non è mai stato, se non favorevole, così poco ostico. «Alcuni membri del Congresso pensano che ci siano voti per chi attacca la Fed», dopo che questa ha «per scelta e poco saggiamente legato la politica monetaria a quella fiscale», diceva recentemente William Poole, ex presidente della Fed di St. Louis e fra i più stimati banchieri centrali. «La Fed avrà passaggi difficili nello sbrogliare ciò che è stato fatto», e dovrà «stare più attenta ai rapporti con il Congresso».
La Fed intanto si è cautelata, assumendo a luglio come capo lobbista ("government affairs") Linda Robertson, già capo lobbista a Washington di Enron, e molto vicina agli ex ministri del Tesoro Robert Rubin e Lawrence Summers, quest'ultimo ora stratega economico di Barack Obama. Dalla Enron, il grande fallimento del 2001 che ha anticipato il disordine finanziario del 2008, alla Fed. Però.
mario.margiocco@ilsole24ore.com