La scuola, almeno come dimensione, è una delle più grandi imprese italiane. Il ministero della Pubblica istruzione ha un bilancio di oltre 40 miliardi, dà lavoro (dall'infanzia alla secondaria) a più di 800mila insegnanti e fornisce servizi a quasi 8 milioni di studenti e alle loro famiglie. Lo ricorda Claudio Cremaschi nel libro Malascuola, una documentata e appassionata analisi delle malattie croniche, ma anche con le possibili soluzioni, del sistema scolastico italiano. Certo sarebbe un'allarmante semplificazione paragonare la missione di formare i giovani alla funzione delle imprese che producono beni e servizi e si confrontano sul mercato. Eppure le teorie manageriali possono essere utili per mettere a fuoco, almeno alla base, le politiche più valide per sviluppare l'efficienza di un sistema scolastico che, soprattutto in Italia, continua a manifestare limiti, problemi e profondi contrasti politici.
In uno dei classici della storia d'impresa, l'economista Alfred Chandler (Strategia e struttura) sottolinea, per esempio, come la definizione strategica costituisca il momento principale di governo d'impresa in quanto finalizzata alla «scelta delle mete fondamentali e degli obiettivi di lungo termine». La strategia ha quindi il compito di definire il sentiero di sviluppo attraverso la crescita dimensionale, la riduzione dei costi e la maggiore efficienza complessiva. È la strategia in fondo a condizionare la struttura dell'impresa, una struttura che nel medio periodo si perfeziona lungo il percorso necessario a ottenere le migliori condizioni operative.
Ci si può allora chiedere se per la scuola italiana esista una strategia, cioè un piano d'azione a lungo termine, oppure se ci si trovi puntualmente di fronte a tattiche di breve periodo, tattiche che possono essere certamente efficaci per affrontare singoli problemi, ma che non sono in grado di dare una prospettiva di sostanziale miglioramento qualitativo. Il problema è che nella politica italiana il lungo termine è stato bandito da tempo e soprattutto la scuola è stata negli ultimi decenni una palestra di altalenanti riforme. È stato così che il governo Berlusconi nel 2001 ha cancellato la riforma Berlinguer e dopo cinque anni il governo di centro-sinistra si è sentito in dovere di bloccare la riforma Moratti. Forse è il caso, come sottolinea Cremaschi, di «prendere atto che la scuola non può essere cambiata da una maggioranza politica o parlamentare. Occorre, come per la Costituzione, un accordo bipartisan, almeno sulle linee generali».
La scuola è infatti troppo importante per essere soggetta a infiniti scossoni successivi, scossoni che hanno prodotto un livello di formazione agli ultimi posti tra i paesi europei. Un accordo politico per il superiore interesse dei giovani potrebbe avere anche il grande obiettivo di rimettere al centro gli studenti, facendo passare maestri e professori dal piedistallo della corporazione sindacalmente protetta alla più consona poltrona degli educatori.
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