Siamo in periodo di rinnovo di cariche societarie e le pagine dedicate ai mercati finanziari assumono un aspetto cabalistico: chi verrà nominato alla banca X dalla fondazione Y? Quante saranno le liste per il consiglio della compagnia assicurativa Z? Di chi è amico il professor Caio? E che simpatie politiche ha monsieur Semproniò?
L'affetto per il manuale Cencelli in Italia è così radicato che raramente si discute di sostanza e molto spesso di nomi e caselle anche quando parliamo di società quotate. La passione si è vieppiù scatenata grazie all'innovazione degli amministratori indipendenti, ribattezzati da Guido Rossi "financial gigolò" con quel brillante intuito che conduce a far adottare nel linguaggio comune una personale invenzione linguistica (come successe ad Alberto Ronchey per il "Fattore K" o la "lottizzazione").
Servono questi benedetti amministratori indipendenti? E soprattutto, sono importanti per qualcuno, oltre che alla ristretta cerchia degli eletti e dei grandi elettori? Come un buon giallista non dovrebbe fare, anticipo la risposta che è doppiamente positiva.
Innanzi tutto dobbiamo distinguere: una cosa sono gli amministratori indipendenti, i quali non dovrebbero avere legami con la società, i suoi manager o gli azionisti dominanti, in modo da poter esercitare il loro ruolo di controllo e consiglio in misura obiettiva, al fine di massimizzare il valore della società; un'altra sono i consiglieri di minoranza, che possono sia essere indipendenti sia semplici fiduciari di un socio rilevante sebbene non maggioritario. Entrambe le tipologie devono obbligatoriamente essere presenti nelle società quotate, ma solo quella degli indipendenti è veramente utile. Essi, se interpretano il loro ruolo con capacità e diligenza, possono migliorare il governo della società, assicurando processi di selezione dei manager e di determinazione del compenso, nonché attenzione ai controlli interni e ponderazione delle decisioni più impegnative. Gli amministratori di minoranza fiduciari rischiano di diventare dei "capi corrente" che, avendo a cuore gli interessi del loro referente, aggiungono vischiosità al processo decisionale.
Inoltre, il meccanismo di funzionamento dei consiglieri indipendenti interessa tutti, anche i non addetti ai lavori, perché ci fa riflettere su come il legislatore crei confusione e inefficienze.
Gli amministratori indipendenti sono nati in Italia nel 1999 grazie al codice di autoregolamentazione della Borsa che ne ha delineato le caratteristiche di "garanti" per il mercato. Probabilmente il codice ha fatto troppo affidamento sulla moral suasion senza adeguate sanzioni private e questo ha fatto sì che sia intervenuta, in modo scomposto, la pubblica autorità. Prima si è cercato di dare forza ai codici richiamandoli nel Testo unico della Finanza, poi si sono introdotti a forza gli amministratori di minoranza e quelli indipendenti nei consigli. La Consob recentemente ha dato un ruolo ulteriore (e controverso) agli indipendenti, conferendo loro un potere di veto nelle operazioni con parti correlate; infine, il decreto di attuazione dell'VIII direttiva europea ha scombussolato tutto, dichiarando che è il buon vecchio collegio sindacale ad avere le funzioni di comitato di controllo interno, lasciando nel limbo i comitati costituiti secondo i codici di autodisciplina.
Non vi è chiaro? Neanche a me tanto, salvo una cosa: non c'è una sola situazione complessa che un governo volenteroso non riesca a ingarbugliare ancor di più.
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