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I PARTITI BRITANNICI VERSO IL VOTO / Pochi immigrati, siamo inglesi

di Guido Bolaffi

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18 marzo 2010

Sull'immigrazione anche il governo laburista inglese rischia di pagare un prezzo alto alle elezioni di maggio. I conservatori di David Cameron, sull'onda della campagna dei tabloid contro l'invasione straniera e il rischio di una mutazione demografica, hanno deciso di puntare sulla questione per riguadagnare il consenso vanamente rincorso per oltre un decennio. Come andranno le cose si vedrà.
È dall'espulsione comminata dai tory nei confronti di Enoch Powell, il leader della fazione più oltranzista del partito, che alla Conservative Association di Birmingham del 1968 con il discorso "River of blood" aveva proposto di usare il risentimento anti stranieri degli elettori per riconquistare Downing Street, che tra i partiti inglesi vige una regola: non usare l'immigrazione per prendere più voti.

Restano da spiegare cause e ragioni in base alle quali l'immigrazione, anche nel paese più aperto d'Europa e con una capacità amministrativa superiore a quella di molti altri, rischia di trasformarsi, per chi l'ha gestita, in una buccia di banana. Dal 1997, data di incoronamento di Tony Blair, sono arrivati, in media, in Inghilterra 100mila immigrati l'anno. Saliti a 200mila dopo il 2000. Con un saldo netto di quasi 2 milioni. Una cifra ragguardevole soprattutto se si considera il fatto che è la differenza aritmetica di un più massiccio flusso fatto dai tanti che sono arrivati e dai tanti che sono usciti. Nello stesso periodo sono stati concessi 1,6 milioni permessi di soggiorno di lunga durata.

Ai numeri ufficiali vanno aggiunti quelli degli irregolari e dei clandestini: secondo gli esperti della London School of Economics, sono tra 500 e 800mila, metà dei quali concentrati a Londra. Sul totale delle forze di lavoro gli immigrati erano nel 2008 il 13% contro il 7% del 1998. Nello stesso anno sul totale dei nuovi nati in Inghilterra e Galles quelli con madri straniere erano il 24% e addirittura la metà nell'area londinese.

Un successo, direbbe qualcuno. Che ha fatto crescere insieme la Cool Britannia del New Labour e il popolo dell'immigrazione. Certo, ma non per tutti. Questo è il problema. Il risentimento e il rifiuto contro gli immigrati di molti inglesi, in particolare degli operai di una certa età con livelli di istruzione medio-bassa, dei pensionati delle periferie urbane che vedono calare il valore delle case comprate con i risparmi di una vita, delle madri di famiglia single, dei giovani precari che si confrontano ogni giorno con l'esuberanza dei coetanei figli di nuovi arrivati, non nascono dagli allarmi faziosi e strumentali del Migration Watch o del Daily Standard. Per la semplice ragione che nessuna manipolazione ideologica è grado di fare presa sul comportamento collettivo in assenza di fenomeni reali da questo percepiti come una minaccia e di conseguenza rifiutati.

L'immigrazione ha fatto ricca l'Inghilterra. Ma non tutti gli inglesi. In sintonia più con il liberismo economico e con i ceti intellettuali metropolitani che con il mondo del lavoro. Ma la colpa è degli immigrati o dei politici? De te fabula narratur, dicevano i latini per eventi che per la loro emblematicità anticipavano ciò che più tardi si sarebbe verificato altrove. Come nel caso inglese dell'immigrazione. Nessuno può fermare i processi di modernizzazione come quello dell'immigrazione, ma molti possono reagire. Gli uomini, ricordava ai suoi studenti di Harvard l'economista Wassily Leontief, non sono come i cavalli che in silenzio si fanno rimpiazzare dalle macchine. Non avranno ragione, ma hanno le loro ragioni. Prima si ascoltano, meglio è.

18 marzo 2010
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