Poco meno di due anni fa si tenne a Roma un convegno sul latino organizzato da Treellle, l'associazione non profit creata da Attilio Oliva per migliorare la scuola. Si discuteva un'anomalia italiana: in tutti i paesi industriali il latino è una materia facoltativa scelta da pochi studenti (tra il 2 e il 5%), mentre in Italia lo studia più del 40% degli iscritti alle superiori. Non sarebbe il caso di adeguarci?
Qualcuno si domanderà come ciò sia possibile. Semplice: il latino è materia fondamentale nei licei classici e scientifici e la percentuale degli iscritti è salita – ecco il paradosso – grazie al boom delle iscrizioni al liceo scientifico, crescente nell'ultimo decennio. Ma poiché nei test internazionali Ocse-Pisa i quindicenni italiani risultano sotto la media in matematica e in scienze – materie essenziali, insieme all'inglese, per sostenere l'innovazione e la crescita – non sarebbe meglio rafforzarne lo studio e rendere facoltativo il latino (liceo classico a parte)?
Nel convegno di Roma prevalse di stretta misura questa opinione; anche se il grande linguista Tullio De Mauro ebbe modo di ricordare che metà delle parole inglesi deriva dal latino. Non è tuttavia per ragioni etimologiche che studiare il latino continua a essere utile. Contano assai di più la sua importanza storica (ignorare il latino ci renderebbe estranei secoli di cultura italiana, che giungono fino a ieri e nella Chiesa cattolica fino a oggi) e la sua utilità formativa (anche per apprendere lingue straniere come il tedesco o l'arabo, il cinese o il russo).
Altrimenti sarebbe il caso non solo di rendere facoltativo il latino, ma anche di ridimensionare una scuola come il liceo classico, benché rimanga, dobbiamo ammetterlo, la nostra istituzione culturale di maggior prestigio. È ancora opportuno dedicare tante ore e tanto impegno alla lingua e alla cultura greca e latina in una scuola che perde colpi nei confronti di quelle degli altri paesi sviluppati?
Molti commentatori dei programmi e delle riforme scolastiche difendono strenuamente il ruolo del liceo classico; che è stata quasi sempre la loro scuola. Tuttavia negli ultimi decenni è cresciuta la schiera di chi ritiene la nostra tradizione umanistico-letteraria un retaggio del passato, che soffoca ogni tentativo di affermare in Italia una moderna cultura scientifica.
La società italiana è profondamente cambiata dagli anni in cui Giovanni Gentile creò il liceo classico – unico dal quale si poteva accedere a ogni facoltà universitaria – come lo strumento di formazione per eccellenza della classe dirigente. Allora l'Italia era un paese agricolo, con un tasso di analfabetismo che superava il 30% e in cui solo una piccola minoranza di giovani si iscriveva alle scuole superiori. Oggi siamo un grande paese industriale (speriamo di restarlo), in cui quasi tutti i giovani si iscrivono agli istituti secondari (benché molti, troppi, si perdano ancora per la strada).
Negli anni della trasformazione, dopo la seconda guerra mondiale, la classe dirigente era quasi interamente di formazione classica, scienziati compresi, e lo strato decisivo dei quadri intermedi si formò negli istituti tecnici: una scuola buona, spesso ottima, e capace di adeguarsi ai tempi più e meglio di ogni altra.
Oggi la situazione è ulteriormente mutata: mentre i livelli di scolarità (ma non i risultati) hanno quasi raggiunto quelli dei paesi più progrediti, il liceo classico è divenuto una scuola prevalentemente femminile. Il classico continua a godere di grande prestigio soprattutto al Centro e al Sud, ma lo scientifico lo ha scavalcato e ha superato anche le iscrizioni agli istituti tecnici (che però hanno recuperato qualche punto negli ultimi due anni).
In conclusione, il liceo classico è ancora attuale o è un residuo del passato? Non sarebbe meglio ridimensionarne il peso a favore di un sapere scientifico-matematico nel quale siamo drammaticamente carenti?
Premesso che ogni materia è formativa quando, e solo se, viene insegnata bene, il liceo classico conserva intatta la sua validità, e non solo il suo prestigio, per due fondamentali ragioni.
La prima è – come per il latino – il suo valore storico e formativo, che nessun altro tipo di scuola garantisce in uguale misura. La seconda: è assurdo contrapporre le due culture, l'umanistica e la scientifica, poiché esse si sostengono e si rafforzano a vicenda. Poche discipline sono scientifiche come la filologia classica, pochi esercizi intellettuali sono culturalmente e logicamente complessi come la traduzione di un testo classico greco o latino.
La forza paradossale del latino e del greco sta proprio nella gratuità del sapere che forniscono: l'impossibilità di piegarne l'acquisizione a un uso immediato comunica la passione per lo studio disinteressato, educa e allena a quella ricerca fine a se stessa che è all'origine di ogni grande conquista scientifica. Inoltre l'oggetto stesso di quegli studi – la civiltà classica – costituisce un modello storico e culturale imprescindibile, una fonte perenne di valori umani insostituibili.
Per migliorare lo studio della matematica, delle scienze e dell'inglese abolire il latino e il greco non serve, come dimostrano i programmi recenti dei migliori licei classici. Dobbiamo studiare più e meglio la matematica, ne sono convinto. Ma rinunciare al latino e al greco sarebbe una perdita secca. Non per la scuola, per la vita.