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PREVIDENZA E RETRIBUZIONI / Sul cuneo del lavoro ci sono ancora margini

di Fabio Pammolli e Nicola C. Salerno *

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18 NOVEMBRE 2009

Il debito pubblico va verso il 116 per cento. Per i prossimi anni, la prospettiva è di un lento recupero del Pil e di avanzi primari da ricostruire.
Su questo quadro di sfondo, uno sgravio degli oneri sul lavoro non può basarsi su riduzioni delle aliquote Irpef. Ma la differenza tra costo del lavoro e retribuzione netta rimane troppo alta, di 8 punti percentuali sopra la media Ocse, e alleggerire il cuneo sul lavoro appare una scelta obbligata per aumentare la produttività e sostenere la capacità di spesa delle famiglie.
Come intervenire? Gli oneri sul lavoro sono composti per quasi il 70% da contribuzioni sociali, e di queste circa l'80% è dato da contribuzioni obbligatorie al sistema pensionistico pubblico: un elemento, questo, che fa la differenza rispetto agli altri Paesi ad alto cuneo (Francia, Germania, Svezia). Edè attorno a questo dato che ruotano alcuni dei problemi che incidono negativamente sul welfare, sul lavoro e sulla crescita.
Ogni anno, una spesa pensionistica pubblica pari al 14% del Pil è ripartita sugli occupati. Con la crisi questo peso della ripartizione è destinato a crescere e, dopo il 2030 e passata la gobba della spesa pensionistica, un italiano su quattro avrà più di 65 anni. Alto costo del lavoro e basse retribuzioni nette deprimono la produttività e tengono lontano il capitale umano qualificato. A questi effetti negativi, c'è da aggiungere che la ripartizione ha una soglia massima di praticabilità, e una quota così alta dedicata alle pensioni sottrae l'unica fonte di finanziamento possibile per gli istituti a finalità redistributiveo di assicurazione sociale. Per questi si avrà sempre meno spazio, e anche dalle proiezioni dell'ultimo Sustainability Report della Commissione Europea si evince che, in assenza di riforme, nel 2050 ogni occupato dovrà corrispondere risorse equivalenti al 62,3% del Pil pro-capite, per finanziare la spesa pubblica per pensioni e sanità dedicata agli ultrasessantacinquenni.
Senza dubbio, è stato importante ripristinare la proporzione tra attivi e pensionati allungando le carriere lavorative di pari passo con la durata della vita. Oggi, la compresenza di un'uscita precoce dal lavoro e di un'aspettativa di vita più lunga fa sì che gli italiani restino in pensione oltre 3 anni più della media Ue-27, con picchi di 4-5 anni rispetto a Regno Unito e Svezia.
Allungare le carriere serve anchea migliorare l'adeguatezza degli assegni pensionistici. Ma lavorare di più non basta, se i contributi continuano a essere canalizzati sul solo pilastro pensionistico pubblico finanziato a ripartizione. La via per sgravare il lavoro è quella di ridimensionare l'obbligo contributivo, per creare spazio a contributi volontari, rafforzando un pilastro privato complementare che finanzi le pensioni con i frutti di investimenti ad hoc sui mercati. Un riequilibrio tra i due pilastri pensionistici può ridimensionare le distorsioni generate dall'eccesso di ripartizione e, allo stesso tempo, permetterebbe di beneficiare di rendimenti dei mercati finanziari che, al di là della crisi e su orizzonti medio-lunghi, storicamente hanno sempre superato la crescita di Pile retribuzioni.
Resta lo scoglio di una transizione non certo semplice, durante la quale sarà necessario onorare i diritti pensionistici acquisiti potendo contare su una massa contributiva più esigua.
Alla ricerca di una soluzione compatibile con i vincoli di bilancio, la decontribuzione può concentrarsi oggi sui lavoratori più giovani. La riduzione del cuneo favorirebbe il ricorso a contratti regolari, oggi penalizzati da un trattamento contributivo molto più alto rispetto ai rapporti flessibili. Così circoscritto, nei prossimi anni l'intervento potrà trovare la propria copertura finanziaria nell'auspicato innalzamento dell'età di pensionamento, in attesa che, gradualmente, si manifestino i frutti di un nuovo rapporto tra welfare e crescita: con un lavoro più produttivo e finalmente libero dal cuneo.

* Fabio Pammolli e Nicola Salerno sono rispettivamente direttore e senior economist del Cerm

18 NOVEMBRE 2009
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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