Il rapporto «metrico» presentato in queste ore al presidente Obama sull'Afghanistan, rivelato da Foreign Policy AfPak e Cable, non dà motivo di sperare che la strage dei sei parà italiani della Folgore resti isolata. La missione alleata per «intercettare, smantellare e sconfiggere al Qaeda in Pakistan e Afghanistan» non marcia - secondo gli indicatori - nella direzione stabilita. Il presidente chiede più truppe per quello che considera il teatro decisivo della lotta al fondamentalismo islamico, perché la combinazione di guerra e lavoro civile tra la popolazione, il «surge» del generale Petraeus in Iraq, non funziona a Kabul.
Sembra freddo, davanti al sacrificio dei militari della Folgore colpiti da kamikaze terroristi, vuoi talebani vuoi al Qaeda, ragionare in termini «metrici», avanzamento e ritirata sugli obiettivi, ma la guerra ha una sua logica, che la confusione annulla. Dimenticare in queste ore «perché» la coalizione alleata guidata dagli americani è in Afghanistan dal 2001 non significa onorare i caduti. Al contrario, implica ridurne la vicenda a fatto di cronaca nera, come si trattasse di un incidente stradale. Le nostre truppe in missione internazionale, considerate le migliori al mondo nel peace keeping, hanno chiaro il senso del loro lavoro, i rischi che si assumono e il significato geopolitico dei loro sforzi. Sanno di avere una grande responsabilità, spesso con una lucidità assente in altri contingenti, anche tra gli americani.
La moglie del sergente maggiore Roberto Valente di Napoli, ucciso a poche ore dal ritorno a Kabul dopo una breve licenza, commenta «Sono orgogliosa di mio marito» e spiega, meglio di chiunque di noi, perché adesso liquidare la missione italiana nel grottesco spettegolare delle dichiarazioni in Transatlantico è un oltraggio ai militari tutti, i 20 fin qui caduti, i feriti, gli altri ancora in azione.
Finché si tratta di un talk show, un'autostrada da inaugurare, l'emendamento alla solita finta riforma, che i leader politici litighino in cerca di visibilità e consensi taroccati fa parte del tasso inevitabile di demagogia che ogni democrazia racchiude, come la feccia nel vino vecchio. Se dobbiamo decidere della vita e della morte di soldati italiani, e del destino delle popolazioni che, con egida Onu, ci siamo assunti il compito di proteggere e difendere, sarebbe nobile un codice morale diverso.
Non siamo obbligati a restare a Kabul, ma andarcene di corsa a caccia di un pugno di voti, perdendo la faccia con gli alleati e i civili afghani, significa dimenticarsi di Matteo Mureddu, Davide Ricchiuto, Gian Domenico Pistonami, Roberto Valente, Antonio Fortunato e Massimiliano Randino che avevano un'idea di Italia così bella e così pulita da cancellare per noi tutti le schifezze che sappiamo.