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UN AGOSTO CRUCIALE / Il coraggio degli afghani

di Alberto Negri

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19 Agosto 2009
Una donna afghana in mezzo a dei piccioni a Mazar-I-Sharif, nel nord dell'Afghanistan (AP Photo/Farzana Wahidy)

L'estate afghana è a una svolta: domani migliaia di dita ombreggiate di viola purpureo, l'inchiostro che marca gli elettori, saranno l'indelebile segnale che otto anni dopo la caduta dei Talebani ci saranno ancora elezioni. La cosa peggiore che potrebbe capitare, oltre agli attentati in tragica sequenza, è un risultato contestato: all'Afghanistan, per fare un altro passo nel caos, manca soltanto una “sindrome iraniana”, più volte evocata durante la campagna elettorale, se il presidente Karzai fallisse la riconferma al primo turno e si andasse al ballottaggio. Eppure anche questo rischio deve essere messo in conto. Può essere diversamente in un Paese che da 30 anni impugna, senza interruzione, il fucile?
Sostituire il kalashnikov con le urne, la violenza con la ragione, l'arbitrio con la legge, è la vera sfida. Si può discutere quanto si vuole sulla libertà in Afghanistan, sulla corruzione dilagante, sulla violazione dei diritti delle donne e delle minoranze, ma questo Paese non ha vissuto dopo la fuga del Mullah Omar i peggiori anni della sua storia. E la popolazione lo sa perfettamente: mai come oggi può dimostrare scontento o approvazione nei confronti dei suoi leader. Lo fa a rischio della vita, come già accadde agli iracheni nel 2005, quando sfidarono le bombe di al-Qaida per andare alle urne. In quello stesso anno votarono anche gli afghani, in una situazione meno drammatica, quando sembrava che molti talebani sarebbero rientrati nella legalità. Fu un'occasione perduta per soffocare una guerriglia che languiva ai confini con il Pakistan.
Afghanistan si fanno adesso le cose giuste che si dovevano fare allora, quando Baghdad inghiottiva la maggior parte delle risorse umane ed economiche. Ma non è troppo tardi e anche il parallelo con la guerra del Vietnam, l'accostamento frequente dei talebani ai vietcong, non è così corretto. Se è vero che l'Afghanistan è stato una sorta di cimitero degli Imperi, da quello britannico a quello sovietico, mai come in questi anni poche migliaia di truppe straniere hanno comunque “tenuto” il campo, sia pure commettendo diversi errori. Il peggiore è stato quello dei bombardamenti indiscriminati, che invece di tagliare la testa alla guerriglia hanno costituito una delle migliori armi di propaganda dei talebani.
Milioni di afghani sono stati abbandonati al loro destino, senza alternative alle eterne derive etniche e settarie. Ma questo è l'Afghanistan reale, non ce n'è stato un altro diverso, se non per brevi parentesi: l'unico momento di aggregazione era costituito dall'affacciarsi ai confini degli stranieri. «Forbidden to the foreigneirs», vietato agli stranieri, era scritto su un cartello piantato alla frontiera con il Pakistan. Non c'è però da illudersi che qui lo stato centrale abbia mai avuto troppa fortuna: si impose con il monarca secolarista Amanullah e prima ancora con il feroce Nadir Shah che innalzava lugubri colline con i teschi dei nemici. Gli altri governanti, fossero re o potenti capi tribali, difficilmente, come Karzai, estendevano la loro autorità oltre la periferia di Kabul. Persino il Mullah Omar, che roteava le lame affilate della giustizia islamica, non si fidò a trasferire il quartier generale dalla sua roccaforte pashtun di Kandahar.
Niente è più ingannevole della carta geografica dell'Afghanistan. Per raggiugere il cuore della valle di Musay, avamposto dei soldati italiani a meno di 20 chilometri in linea d'aria da Kabul, ci vuole più di un'ora e mezza per strade impervie. Gli stessi confini, tracciati nell'800 dall'ufficiale britannico Durand, separano l'etnia maggioritaria pashtun dai clan della North West Frontier del Pakistan. Qui nasce il problema dell'”Af-Pak”, della guerriglia oltre frontiera: fu una manna per gli americani e i loro alleati che negli anni'80 sostenevano i mujaheddin contro i russi, sono oggi il rompicapo di una questione che non si risolve soltanto a Kabul o nell'Helmand.
La mappa afghana non rappresenta uno Stato ma, al massimo, uno stato delle cose, mutevole come le alleanze, resistente e inviolabile come il codice millenario dei pashtun. In queste condizioni non si può parlare di un voto libero e corretto secondo standard internazionali ma di un risultato accettabile e credibile. Ma anche questo, che sembra un obiettivo modesto, ha avuto conseguenze non trascurabili. Negli ultimi otto anni la popolazione è stata più libera di muoversi che nei precedenti ottanta: gli afghani hanno imparato a conoscersi e non soltanto causa di guerre importate o intestine. Kabul, un milione di abitanti nel 2001, oggi ne ha sei, un quarto della popolazione: è la prima volta che afghani di diverse etnie e confessioni convivono, con relativa tolleranza, in una comunità così numerosa. È appena cominciata la grande transizione, quella da una società rurale a una urbana e questo sta accadendo non per una decisione dall'alto, sulle direttive di un piano alla sovietica o per il volere di un autocrate.
La vittoria delle guerriglie asiatiche, come in Vietnam, è stata quasi sempre quella delle campagne sulle città, qui la sfida è quella di invertire la tendenza: avvicinare le campagne, con strade, scuole e ricostruzione, al livello di vita delle città. Per arrivare a questo traguardo, più che pensare a una exit stategy, la Nato dovrebbe ritrovare la convinzione per cui partì per l'Afghanistan, quell'articolo cinque del Trattato che riconosce all'Alleanza il dovere di reagire a un attacco esterno per la difesa collettiva. In Afghanistan può essere cambiata la storia, si può tentare una riconciliazione e trovare un'alternativa alla guerriglia come stile di vita. Ma forse all'Occidente serve lo stesso coraggio e lo stesso impegno che porterà gli afghani alle urne: migliaia di dita sporche d'inchiostro puntate come un ammonimento alla nostra facile indifferenza.

19 Agosto 2009
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