L'estate sta finendo ma, al contrario dell'anno scorso o dell'anno ancora precedente, non c'è nessuna immagine simbolica che valga a caratterizzare la fase attuale della crisi e questa assenza, che non è casuale, offre più di un motivo per pensare. Fortunatamente le lunghe code di risparmiatori in pena che, nell'estate del 2007, prendevano d'assalto gli sportelli della Northern Rock e segnalavano agli occhi del mondo intero l'arrivo della prima crisi finanziaria globale sono sparite. E non ci sono più nemmeno i manager con gli scatoloni in mano che, nell'estate del 2008, abbandonavano precipitosamente gli uffici della Lehman Brothers, il cui inatteso fallimento rendeva sistemica la crisi e ne trasmetteva il contagio dalla finanza all'economia reale.
L'assenza di nuovi simboli destinati ad entrare nell'immaginario collettivo e nella memoria di tutti è il segno che l'estate del 2009 non è paragonabile a quella dei due anni precedenti e che la recessione sta forse davvero finendo. I segnali di miglioramento del clima economico generale non mancano e vanno oltre la ripresina della Germania e della Francia e l'uscita del Giappone dalla recessione sulla cui solidità solo l'andamento congiunturale dei prossimi mesi potrà dire una parola sicura. C'è però una lezione che la crisi ci lascia in eredità e c'è un equivoco che è ora di sfatare. Al contrario dei precedenti cicli economici la legge che faceva seguire lunghi periodi di espansione a brevi o brevissime fasi di recessione non pare trovare conferma.
La fine o il rallentamento della caduta produttiva non equivalgono all'inizio della ripresa o, per lo meno, di una ripresa solida e duratura. Il fantasma della stagnazione è sempre dietro l'angolo e c'è un dato che sta attirando le attenzioni degli economisti: perchè la crescita degli indici di fiducia delle principali economie non si traduce, almeno per l'Occidente, in una vigorosa ripresa della produzione?
Se uno dei perni dell'insostenibilità del modello di capitalismo che ha portato alla crisi era l'eccesso di consumi e di debiti degli americani, come si può pensare che correggendo queste due anomalie la locomotiva Usa possa correre come un tempo o che le emergenti economie asiatiche possano sostituire sic et simpliciter i consumi delle famiglie statunitensi? E come può l'Italia, che cresceva poco anche prima della crisi, crescere di più in un contesto internazionale che cresce di meno? Quasi tutti i centri di ricerca economica ritengono che quest'anno il nostro Pil si contrarrà di circa il 5% e che il prossimo anche l'Italia tornerà in territorio positivo. Ma il punto cruciale non è solo quando comincia la ripresa ma quanto è solida e soprattutto quanto tempo ci vorrà a tornare ai livelli di crescita del Pil precedenti la crisi. Per ora le risposte non sono incoraggianti. Nelle stime della maggior parte dei centri di ricerca la crescita del Pil italiano del 2010 oscilla attorno al mezzo punto percentuale, a molte lunghezze dal 2,1% del 2006 e dall'1,5% del 2007.
Senza interventi correttivi, per tornare ai livelli pre-crisi l'Italia impiegherà cinque anni, un lusso che non possiamo permetterci, salvo rassegnarsi alla chiusura di una serie interminabile di aziende e al boom della disoccupazione. Ecco, dunque, la sfida dell'autunno: come ridurre, da subito, i tempi di recupero dei livelli di crescita su cui ci eravamo attestati tre anni fa? Le ricette non sono infinite e il mutato scenario internazionale ci obbliga a spingere più che in passato sulla domanda interna. Per ritornare a crescere a livelli decenti, le riforme (a partire dalla Pa e dalla formazione del capitale umano), le liberalizzazioni e lo sviluppo delle infrastrutture sono vie obbligate. Prima si imboccano meglio è. Anche perchè, al di là delle stravaganze politiche d'estate, è ciò che interessa agli italiani.