In questi giorni molti si stanno domandando qual è il futuro dell'euro: sopravviverà alla crisi della Grecia e a quella eventuale di altri paesi con alto deficit/debito pubblico? Oppure si va verso la disintegrazione dell'unione monetaria?
Forse il modo migliore di affrontare la domanda è fare un passo indietro e chiedersi: perché è nato l'euro? L'euro è nato per favorire la piena integrazione finanziaria tra i paesi europei, rimuovendo l'ultimo ostacolo alla circolazione dei capitali in Europa, ovverosia il rischio di cambio. Ma l'euro è nato soprattutto per incentivare la convergenza tra le economie europee: rimuovere la possibilità di svalutare equivale a "legarsi le mani", vincolandosi a comportarsi come i paesi più virtuosi dell'area (Germania in testa) in relazione ad alcune importanti variabili economiche, quali il disavanzo pubblico, la produttività, l'inflazione. In altre parole, si sapeva che l'Europa non era un'area valutaria ottimale, ma si pensava di costruire la casa partendo dal tetto; un progetto politico coraggioso, e che per molti avrebbe anticipato una maggiore unificazione politica.
A dieci anni dalla nascita, possiamo dire che il primo obiettivo è stato raggiunto, il secondo no; anzi il primo obiettivo, in assenza di una politica economica adeguata, ha finito con il rendere più difficile il secondo. Alcuni paesi - Grecia, Spagna, Portogallo, Italia, Irlanda - hanno accumulato notevoli divergenze rispetto ai paesi più virtuosi. Sono diventati sempre meno competitivi in termini di produttività, costo del lavoro e inflazione. Registrano disavanzi di parte corrente sempre più ampi e presentano elevati deficit e/o debiti del settore pubblico. La stessa unione monetaria ha alimentato questi squilibri.
Da questo punto di vista la Spagna, molto più della Grecia, è il caso rilevante. Gli ingenti afflussi di capitali, resi possibili dall'integrazione monetaria e finanziaria, hanno consentito di finanziare agevolmente i crescenti disavanzi correnti del paese, generando il boom del settore immobiliare, che a sua volta ha sostenuto la domanda e il reddito negli altri settori dell'economia. Il processo però si è rilevato alla lunga insostenibile, perché basato sull'accumulazione di debito e su una dinamica eccessiva di salari e prezzi, incompatibile con la competitività esterna del paese. Ed è difficile negare che sull'accumularsi di questi disequilibri una responsabilità importante l'abbiano avuta le stesse autorità europee, per anni ossessivamente concentrate soltanto sui criteri relativi alle finanze pubbliche e dimentiche invece delle dinamiche delle economie sottostanti. La Spagna non a caso era considerata una "prima della classe".
Se l'euro vorrà sopravvivere in futuro, di questa lezione si dovrà tener conto. Una revisione del Patto di stabilità e un maggiore coordinamento delle politiche economiche, dalle politiche salariali a quelle macroeconomiche e fiscali, è condizione indispensabile perché l'Unione sopravviva. Ma per fare queste cose occorre una forte leadership politica europea, che al momento non si vede. Lo scenario più probabile è che si cerchi di tenere sotto controllo le pressioni che provengono dai mercati finanziari, attraverso dichiarazioni di principio - come quella rilasciata al termine dell'ultimo vertice dei capi di governo a Bruxelles - e piani ad hoc di sostegno finanziario ai paesi che avessero difficoltà a emettere debito pubblico. A nostro giudizio, questi piani sono necessari per non esporre l'area euro al rischio di reazioni a catena, che ne pregiudicherebbero la sopravvivenza. Ma da soli non bastano.
Occorre anche dotarsi d'istituzioni e regole, affinché situazioni di crisi come quella greca vengano affrontate in modo ordinato, trasparente e possibilmente prevedibile - al contrario dello scenario d'improvvisazione cui stiamo assistendo. L'arma più insidiosa a disposizione della Grecia è la minaccia di scatenare una crisi finanziaria. L'Europa dovrebbe dotarsi degli strumenti per non essere costretta a subire questo ricatto. Ciò significa predisporre procedure d'assistenza finanziaria a un paese membro, condizionate alla realizzazione di misure che ne riducano gli squilibri economici. Ma significa soprattutto prevedere norme che consentano di gestire l'insolvenza di un paese, senza che ciò comporti necessariamente la sua uscita dall'area euro. Quest'ultima non è una casa dove si va e si viene tutti i giorni. Cambiare moneta è un processo costoso: i preparativi per introdurre l'euro sono durati anni. L'uscita dall'euro di un paese a seguito di un default, con aspettative di conseguente svalutazione della valuta locale, lo esporrebbe a una fuga di capitali difficilmente gestibile, e con riflessi sugli altri paesi dell'area difficilmente controllabili.
Una riflessione su questi temi è urgente, ed è in realtà già iniziata. Ad esempio, Paul De Grauwe ha suggerito che la Bce si assuma la responsabilità di decidere quali titoli accettare come garanzia nelle operazioni di rifinanziamento del sistema bancario, anziché affidarsi ai giudizi (spesso opinabili) delle agenzie di rating: ciò darebbe maggiore certezza ai mercati finanziari, evitando il balletto di previsioni sull'eventuale declassamento di un debitore sovrano. Daniel Gros e Thomas Mayer hanno proposto l'istituzione di un Fondo monetario europeo, che dovrebbe non solo soccorrere paesi membri in difficoltà, ma anche risarcire (in parte) i creditori di uno stato in caso di insolvenza, limitandone così le conseguenze. Riflessioni come queste ci sembrano più utili di quelle avanzate da altri, che vorrebbero semplicemente abbandonare la Grecia al suo destino (e domani a chi tocca?).