Se vogliamo che dalle vicende e dalle notizie di questi giorni sull'indagine fiorentina in tema di appalti e lavori affidati dalla Protezione civile derivi qualcosa di più dell'ennesimo scandalo, delle consuete polemiche elettorali fra schieramenti opposti e simmetrici (colpevolisti e innocentisti, giustizialisti e garantisti, difensori e censori del governo, difensori e censori della magistratura e così via), dovremmo veramente cercare d'imparare qualcosa dal nostro passato recente. E da imparare c'è molto, sul versante della politica e dell'amministrazione, da un lato, sul versante della giustizia, dall'altro.
Anzitutto sul lato della politica e dell'amministrazione. Qui occorre superare la tentazione di fermarsi agli episodi, magari alla ricerca dei particolari più o meno succulenti per un'opinione pubblica amante del gossip, e guardare con lucidità ai guasti di sistema che emergono, alle scelte di lungo periodo che si rivelano improvvide, e che bisogna rovesciare.
I compiti di protezione civile comprendono, come dice la legge del 1992, previsione e prevenzione dei rischi, attività di soccorso e altre attività dirette a superare l'emergenza connessa agli eventi che si verificano. La struttura ad hoc nasce essenzialmente per gestire le emergenze, e reca dunque in sé, nella propria organizzazione e nelle proprie procedure, il connotato della straordinarietà. Ma in Italia è andata diventando negli anni una sorta di struttura parallela che consente di mettere da parte le strutture e le procedure amministrative ordinarie, e di operare con logiche e con metodi eccezionali: commissari straordinari, ordinanze d'urgenza, derogabilità delle norme vigenti. E questa struttura si è andata gonfiando e arricchendo di compiti a dismisura.
La legge sulla protezione civile prevede la distinzione fra eventi («naturali o connessi con l'attività dell'uomo») che possono essere fronteggiati dalle singole amministrazioni in via ordinaria, anche coordinandosi fra loro, e «calamità naturali, catastrofi o altri eventi che, per intensità ed estensione, debbono essere fronteggiati con mezzi e poteri straordinari». Per questi ultimi si prevede la deliberazione dello «stato d'emergenza» e la conseguente possibilità di avvalersi, per l'attuazione degli interventi di soccorso e di emergenza (intesi unicamente come «iniziative necessarie e indilazionabili volte a rimuovere gli ostacoli alla ripresa delle normali condizioni di vita»), di commissari straordinari e di «ordinanze in deroga a ogni disposizione vigente», sia pure «nel rispetto dei principi generali dell'ordinamento giuridico» (una sorta di legalità "minima").
Solo che molto presto si è cominciato (e si è continuato in modo sempre più massiccio) a estendere il ricorso alle strutture di protezione civile, e ai poteri di ordinanza in deroga, in relazione a situazioni e compiti la cui "straordinarietà" consisteva solo nella loro unicità (anche la realizzazione di una singola opera pubblica è in questo senso sempre "straordinaria") e che hanno sempre meno a che fare con vere emergenze imprevedibili e impreviste. Nel 2001 (decreto legge n. 343) si è estesa l'applicazione del potere di ordinanza ai «grandi eventi rientranti nella competenza del dipartimento della Protezione civile e diversi da quelli per i quali si rende necessaria la delibera dello stato di emergenza». E che cosa sono i "grandi eventi", che vengono attribuiti alla competenza della Protezione civile? Possono essere una riunione internazionale (come quella del G-8 che doveva svolgersi alla Maddalena e fu poi spostata all'Aquila); un evento sportivo (i campionati mondiali di nuoto di Roma del 2009); addirittura gli eventi connessi alla celebrazione (imprevedibile?) del 150° anniversario dell'Unità d'Italia nel 2011.
La logica è sempre la stessa: si accantonano gli strumenti normativi e amministrativi ordinari, e si opera più "liberamente" con quelli straordinari. Tutto ciò produce però guasti di fondo nel paese. L'amministrazione ordinaria non funziona? La si lascia alla sua "ordinaria" inefficienza, alle prese con difetti organizzativi, risorse sempre più scarse, prassi invecchiate, culture poco attente al risultato. Impegno politico e risorse si concentrano sulle "emergenze": e l'emergenza "giustifica" tutto, anche procedure non concorrenziali per affidare i lavori, e magari scarsa attenzione ai conflitti e alle commistioni di interessi.
Allora, l'insegnamento da trarre è uno solo: tornare a lavorare e impegnarsi perché l'amministrazione "ordinaria" sia bene organizzata, operi correttamente ed efficacemente, goda delle risorse e delle attenzioni di cui ha bisogno (magari riflettendo sugli esiti delle tante "riforme" realizzate o tentate). Gli italiani hanno bisogno di un paese e di uno stato che funzioni, non di passare da una "emergenza" all'altra.