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Le due facce del Fondo imprese

di Gianfilippo Cuneo

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19 GENNAIO 2010

Il Fondo salva-imprese è un'iniziativa meritoria; molti proprietari di aziende familiari attendono con trepidazione di utilizzarne i capitali, ma forse non hanno compreso che porterà a uno stravolgimento degli assetti proprietari delle imprese stesse. Vediamo perché.
Il Fondo si rivolge alle oltre 15mila imprese con dimensioni fra i 10 e i 100 milioni di fatturato. All'interno di tale gruppo, il sotto-insieme delle imprese fra i 10 e i 50 milioni di fatturato è stato tradizionalmente trascurato dal private equity perché richiede tanto lavoro con poche possibilità d'investire capitali importanti; le singole aziende infatti non sono molto redditizie e quindi hanno valori bassi, per cui ogni investimento di minoranza può valere al massimo pochi milioni.

Ma anche le aziende relativamente più grandi non valgono molto; dai dati dell'indagine Mediobanca si vede che le 382 aziende private italiane con un fatturato fra i 50 e i 100 milioni avevano nel 2008 una redditività media dello 0,9% del fatturato; acquisire una quota del 30%, riconoscendo un valore pari a 10 volte gli utili netti (o pari al capitale, se l'azienda era in perdita), comporterebbe un investimento medio di 10,3 milioni di euro per azienda. Per contro, in aggregato tali imprese avevano una forte necessità di capitali sia per crescere sia per ridurre l'indebitamento, ed è presumibile che le necessità siano aumentate nel 2009.
Quando il Fondo sarà operativo, sarà subissato da una valanga di richieste per sottoscrivere aumenti di capitale. Dato che il Fondo sarà gestito in modo molto professionale, è bene che i proprietari delle aziende si preparino a domande penetranti riguardo all'utilizzo dei capitali messi a disposizione, alle modalità di gestione, e in particolare a come il Fondo potrà uscire dall'investimento; quelli che si aspettavano di disporre di notevoli capitali senza particolari vincoli saranno delusi.

La prima domanda che un fondo fa è di accertare se esista davvero l'imprenditore capace di far fruttare i soldi, essendo inutile salvare o aiutare un'impresa che non ha l'anima. In Italia si fa confusione fra imprenditore e capitalista; l'imprenditore è chi ha fondato e fatto crescere l'impresa, dimostrando competenza, mentre non lo è chi l'ha ereditata. In qualche caso imprenditore è anche il figlio o il nipote del fondatore, ma si tratta di esempi rari che però generano lo svantaggio di permettere a tutti gli altri eredi di pensare di avere ereditato, insieme alle azioni, anche chissà quale capacità manageriale. Imprenditori si diventa, non si nasce. Idem per i manager.

La seconda domanda è relativa all'uso dei nuovi capitali, che non possono servire semplicemente per stabilizzare lo status quo. Il Fondo nasce come iniziativa del ministro per l'Economia e quindi ha una sua legittimazione se persegue obiettivi di sistema, e in primis garantire l'occupazione (diretta e indiretta) dell'azienda in cui investe, ma per garantirla veramente occorre che l'azienda si sviluppi perché in un mondo sempre più competitivo è illusorio pensare di continuare con lo status quo; oggi si va avanti o si va indietro. Un'azienda industriale o di servizi che non si sviluppa prima o poi si troverà di fronte concorrenti più capaci, più "affamati", e che si sono costruiti dei vantaggi competitivi quali una maggior dimensione, una base produttiva a basso costo fuori dall'Italia, una rete commerciale e una quota di mercato importante su base internazionale; se un'azienda incapace di crescere viene salvata oggi ma non cambia pelle, dovrà essere salvata anche domani e dopodomani, quindi uno spreco di soldi e uno sforzo inutile.

Le aziende italiane sono generalmente più piccole dei concorrenti, e quindi è assolutamente necessario che il Fondo serva per aumentarne la dimensione; dato che operiamo in mercati stagnanti, tale obiettivo deve esser perseguito principalmente con fusioni fra operatori simili, mentre investimenti all'interno di una singola azienda non beneficiano della crescita del mercato (non c'è più) e sono "neutralizzati" da investimenti simili fatti dai concorrenti, per reazione. Per garantire lo sviluppo, o almeno averne la possibilità, bisogna che il piano industriale preveda una crescita profittevole; ma non è sufficiente che il piano esista sulla carta, bisogna che ci sia chi lo realizza.
Una terza serie di domande riguarderà le modalità di gestione. Le aziende medio-piccole italiane hanno l'abitudine del "nero", che per molte è anche una questione di sopravvivenza. Salvare aziende che lavorano in settori che richiedono il "nero" (confezione, edilizia, subfornitura, eccetera) porta a due conseguenze: o s'interrompe la pratica, e l'azienda non ha più un vantaggio competitivo e perde; o la si accetta e il Fondo non avrà alcuna possibilità di controllare i flussi di cassa e di valorizzare l'investimento.

Ma la sorpresa maggiore che avranno i proprietari delle aziende sarà la "pretesa" del Fondo di avere patti parasociali seri e soprattutto di uscire dall'investimento, prima o poi. Le aziende familiari italiane non li hanno perché tradizionalmente l'imprenditore fa tutto quello che vuole. Quando poi all'imprenditore succedono i figli, si cerca di andare d'accordo ma sono rari i veri e propri patti parasociali che definiscono livelli d'autonomia decisionale, maggioranze di voto qualificate, diritti delle minoranze.
  CONTINUA ...»

19 GENNAIO 2010
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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