Se la crisi greca fosse letta anche in termini geopolitici, e non solo strettamente economici, l'importanza di una soluzione europea diventerebbe infinitamente più chiara.
Qual è il rischio? Come è stato discusso alla recente conferenza Aspen di Venezia, il rischio è una spaccatura europea sull'asse Nord-Sud. Questo scenario non lederebbe solo la tenuta del sistema monetario; porrebbe anche grossi problemi di sicurezza all'insieme del continente europeo. Perché quello che un tempo chiamavamo il "fianco Sud" (dell'Europa e della Nato) è diventato il fronte centrale della sicurezza post guerra fredda. Da cui passano - attraverso confini porosi fra le due sponde del Mediterraneo - i principali problemi strategici che ci troviamo di fronte (migrazioni, energia, terrorismo, proliferazione).
In altri termini: il cuore carolingio dell'Europa non può permettersi, per ragioni di sicurezza e non solo economiche (la propria esposizione bancaria e la tenuta dell'euro), di perdere il Sud. Il punto è che questo argomento, molto semplice da capire, non può essere reso esplicito. Perché è un argomento difficile da vendere nella politica interna dell'attore decisivo, la Germania.
Guardiamo alle posizioni tedesche delle ultime due settimane. Il ministro delle Finanze, Wolfgang Schäuble, ha messo sul tavolo un monito esplicito: la zona euro potrà essere salvata solo se i paesi in deficit "eccessivo" saranno disposti a varare manovre draconiane di rientro. L'alternativa è una loro uscita dall'euro. In realtà, i Trattati attuali non prevedono scenari del genere. Quello di Shäuble è essenzialmente un deterrente politico. Una forma estrema di pressione, il cui obiettivo non è di disintegrare Eurolandia ma di ripristinare le condizioni iniziali dello scambio fra marco tedesco ed euro (il rigore fiscale).
Schäuble esprime così una linea da ultimo erede di Maastricht: una Germania europea ma alle condizioni tedesche. Che escludono, almeno per ora, ciò che invece chiede Parigi: un riequilibrio anche da parte dei paesi in surplus (la Germania, appunto).
Angela Merkel ha detto più o meno le stesse cose del suo ministro delle Finanze. Ma più che rivolgersi all'Europa, ha guardato soprattutto a una opinione tedesca allergica a ogni forma di salvataggio. E questo spiega la sua posizione ufficiale: no ad aiuti bilaterali (in realtà, aiuti bancari alla Grecia vengono già dati in silenzio).
Di fronte alla crisi greca, la cancelliera è costretta a barcamenarsi - non ci sono termini migliori - per ragioni prettamente domestiche. Ha una coalizione che non decolla e ha davanti a sé elezioni decisive nel Nord Reno/Westfalia (la scadenza che segnò, nel 2005, l'inizio della fine del governo socialdemocratico di Schröder). E nessuno può sperare di vincere, nella Germania di oggi, promettendo più Europa; o meglio, più sacrifici tedeschi a favore di altri europei. Ma che sia così, che promettere una maggiore solidarietà europea non convenga elettoralmente neanche in Germania (non stiamo parlando della Gran Bretagna), la dice lunga sullo stato dell'Unione. Perché conferma un trend generale degli ultimi anni. Anni in cui le istituzioni comuni sono state rafforzate, inclusi i poteri del parlamento europeo; mentre le regole si sono indebolite e le politiche si sono in parte ri-nazionalizzate. Sembra un paradosso e lo è.
La Germania ne è consapevole. Solo che Angela Merkel è parte di una generazione post-riunificazione tedesca che guarda e descrive l'Europa in modo diverso dalla generazione precedente. Un modo che si potrebbe definire "sovranista": termine in cui rientrano l'affermazione del ruolo del parlamento nazionale rispetto a future decisioni europee (quando parla di revisione dei Trattati, pur sapendo che non avverrà, Merkel parla al suo Parlamento) e uno spostamento di asse verso la concertazione fra governi - o meglio fra pochi governi - a danno della Commissione. La Germania come nuova Francia?
E qui torniamo alla sicurezza europea. I "sovranisti" europei, in realtà, sono sovrani fino a un certo punto. Per motivi geopolitici ed economici, l'Europa continentale non può perdersi per strada la Grecia e poi magari Spagna e Portogallo. Anche perché sta già perdendo la Turchia, paese che gioca ormai una sua partita nazionale sullo scacchiere medio-orientale - e oltre. Il distacco di Ankara dal rapporto privilegiato con l'America non è bilanciato da un avvicinamento deciso alla Ue, anche grazie alle ambiguità europee verso Ankara. E se la Turchia si allontana, stabilizzare il fianco sud dell'Europa diventa decisivo.
La risposta europea alla crisi greca ha elementi di ambiguità. Perché la Germania deve escludere - in teoria - forme esplicite di salvataggio: lo impongono i vincoli di politica interna citati prima e rischi di "moral hazard". D'altra parte, la geopolitica di oggi rende molto più costosa di un tempo una frattura europea sull'asse nord-sud. Che nessuno può davvero rischiare. Certamente non l'Italia. Ma neanche, qualunque cosa dica ufficialmente, una Germania che vive di esportazioni nell'area dell'euro. Quando Wolfgang Münchau scrive che Berlino non ha più un interesse nazionale a salvaguardare l'area dell'euro, sbaglia. Almeno si spera.