I giudizi riservati da Umberto Bossi al governo «amico» della regione Lombardia sono alquanto inusuali anche in campagna elettorale, quando è lecito competere tra alleati. «La Lombardia è in crisi, non riesce a decollare, manca il lavoro... – ha detto il leader leghista –. Venite a far politica nella Lega, non andate negli altri partiti dove si scannano».
Parole forti, riferite in modo palese al Pdl. Ma forse non sorprendenti se vogliamo considerarle per quello che sono: un chiaro indizio su come la Lega intende gestire il dopo-elezioni, la fase che si aprirà la sera stessa del 29 marzo. È evidente che Bossi vuole consolidare con ogni mezzo il suo consenso nel Nord per pesare nel governo del paese più di quanto non gli sia mai riuscito in passato.
Ne deriva che per la Lega si tratta di indebolire ovunque è possibile l'alleato berlusconiano. A sinistra il Carroccio ha già assorbito negli anni tutto quello che poteva, come dimostra l'analisi del voto nell'ultimo quindicennio. Ora, se vuole continuare l'espansione, Bossi deve strappare pezzi di elettorato a Berlusconi e costringerlo ad ammettere che il Nord è in larga misura leghista. O almeno condizionato in misura determinante dal partito bossiano.
La vittoria in Veneto e in Lombardia non è in discussione, ma si tratta di stabilire le proporzioni del successo e le percentuali dei due «alleati». Poi c'è il caso del Piemonte. Dove, secondo i sondaggi, la candidata del centrosinistra, Bresso, e il suo avversario Cota risultano testa a testa. Se prevalesse l'uomo della Lega, tutte le tre regioni settentrionali sarebbero assegnate al centrodestra. E con ogni probabilità il Carroccio sarebbe in alcune aree il primo partito. I riflessi sugli equilibri nazionali non tarderebbero a farsi sentire. Anche se non sappiamo in che termini, dal momento che Bossi è sempre un personaggio imprevedibile.
Sta di fatto che il nodo politico cruciale nel prossimo futuro riguarda il ruolo della Lega, mentre l'attenzione generale è sviata a scrutare il rapporto più o meno conflittuale tra Berlusconi e Fini. Con una campagna accorta nel nord, Bossi sta sfruttando le difficoltà del presidente del Consiglio, al quale offre una solidarietà piuttosto avara e persino condita d'ironia («le intercettazioni? Gli consiglio di parlare meno al telefono»). Difficile immaginare che gli appelli, pur legittimi, di Casini o dello stesso Fini contro la «padanizzazione» dell'Italia basteranno ad arrestare il fiume leghista, se i sondaggi sono veritieri. Semmai potrebbero servire come base di un governo d'emergenza senza Bossi, ma si tratta di un'ipotesi fuori della realtà. Chi avrebbe la forza di tener fuori la Lega, se davvero il settentrione si tingesse ancor più di verde?
Quindi la vera domanda riguarda l'uso che Bossi vorrà fare della sua forza. Qualcuno immagina una sorta di scissione morbida. Viceversa il leader potrebbe muoversi sulla rotta opposta. Con un Berlusconi sempre meno interessato a confrontarsi con l'opposizione, potrebbe essere proprio Bossi a prendere l'iniziativa sulle grandi riforme. In primo luogo, s'intende, per attuare il federalismo. Poi forse anche per ricucire il paese. L'evento sarebbe al limite del paradosso, ma nessuno può escluderlo. In un'intervista al Corriere della sera, pochi giorni fa, il capo leghista ha usato toni rispettosi verso il Pd, definito un interlocutore serio. Il resto lo vedremo fra qualche settimana.