Come uscire dalla stagnazione economica? È questo il problema centrale dell'Italia. Ora che è stato superato lo scoglio politico delle elezioni regionali, non ci sono più scuse per non affrontarlo.
La prima cosa da fare è sbarazzare il campo dall'equivoco che le cose dopo tutto non vanno poi così male. Tra il 2005 e il 2008 il prodotto interno lordo italiano è cresciuto di oltre otto punti meno della media dell'area euro. Rispetto a Francia e Germania, due paesi la cui economia non è stata drogata da finanza e immobili, il divario è stato di oltre quattro punti percentuali. Poi è venuta la crisi, e il nostro reddito è calato più della media Ue (5% contro 4,1%). Le previsioni per il 2010-11 non indicano che la ripresa italiana sarà più rapida degli altri paesi dell'area euro.
In secondo luogo, bisogna evitare di illudersi che il problema siano le statistiche ufficiali più che la realtà economica. Per quanto il Pil sia un indicatore imperfetto, vi sono almeno tre ragioni per cui la questione della crescita non può più essere rimandata.
Innanzitutto, alla radice dello scarso dinamismo della nostra economia c'è un rallentamento ormai ventennale del tasso di crescita della produttività sia del lavoro che dell'insieme dei fattori produttivi nel loro complesso. Ossia non è cresciuta nel tempo l'efficienza con cui i fattori (lavoro, macchinari, immobili e così via) vengono utilizzati dal sistema produttivo. Il problema non riguarda solo i servizi e la pubblica amministrazione, ma anche la manifattura. Tra il 1995 e il 2007, il valore aggiunto per ora lavorata dell'industria manifatturiera italiana è salito del 6,6%, contro il 51% in Francia e il 45% in Germania (dati Euklems).
La seconda ragione di preoccupazione è che la scarsa crescita della produttività si traduce in bassi salari sia lordi che netti e mortifica il potere d'acquisto delle famiglie. Secondo l'Ocse, nel 2008 il salario netto di un individuo non sposato e senza figli era in media di 21.374 dollari (a parità di potere d'acquisto), contro 29.570 in Germania e 26mila in Francia.
La differenza non è dovuta a un più elevato cuneo fiscale sul lavoro in Italia. Anche le retribuzioni medie lorde sono più basse in Italia. Ma il minor costo del lavoro non è sufficiente a compensare il divario nella produttività delle imprese. Nonostante i salari più bassi, da quando siamo entrati nell'euro il costo del lavoro per unità di prodotto è cresciuto in Italia di circa il 25 per cento in più che in Germania, e il 10 per cento in più che nella media dei paesi dell'euro. Cioè, nonostante la moderazione salariale, vi è stata una forte perdita di competitività delle nostre esportazioni.
I dati sul commercio mostrano che le quote di mercato italiane hanno tenuto meglio di quelle francesi. Ma questo è di scarsa consolazione: quale sarebbe stata la nostra performance se avessimo accresciuto l'efficienza tanto quanto i nostri concorrenti europei?
Il terzo motivo di preoccupazione è che soltanto attraverso una crescita sostenuta del reddito è possibile ridurre il peso del nostro debito pubblico senza compromettere eccessivamente la capacità di spesa dello stato. I quattro punti di reddito persi rispetto a Germania e Francia tra 2004 e 2008 equivalgono grosso modo a 60 miliardi di euro che non sono stati immessi nel nostro sistema economico.
Stabilito che crescere poco è un problema, quali sono le cause? Ve ne sono molte, ma il nodo principale è uno: il processo di allocazione delle risorse. Denaro, sforzi, lavoro stentano ad andare verso le attività e gli investimenti più produttivi, dove maggiore è il contributo allo sviluppo del paese.
Questo vale sia nel settore pubblico che nel privato. I progetti infrastrutturali hanno tempi infiniti. I finanziamenti alle università italiane sono dati a pioggia, e il sistema della ricerca non solo non riesce ad attrarre talenti, ma lascia che i migliori se ne vadano. Le imprese efficienti crescono meno rapidamente che altrove - da questo punto di vista la bassa dimensione media delle nostre imprese è un indicatore di debolezza e stagnazione: sono piccole perché non crescono.
Altro esempio, la difficoltà a indurre e trattenere investimenti diretti esteri sul nostro territorio. O ancora, un'economia sommersa il cui prodotto sfugge dalle statistiche ufficiali. Certo, se queste attività fossero misurate accuratamente, il Pil (ma non la crescita) sarebbe più elevato; ma il fatto che non emergano è un segno grave dell'incapacità del sistema produttivo a favorire attività lecite e probabilmente con un maggiore potenziale di sviluppo. Insomma, chi può contribuire di più alla crescita in Italia deve fare sforzi maggiori e superare ostacoli più elevati che in altri paesi.
Per rimuovere gli ostacoli e migliorare il processo di allocazione delle risorse non basta un'unica riforma. Servono tanti piccoli interventi, guidati però da una strategia e un'impostazione comune: facilitare l'allocazione delle risorse pubbliche e private verso chi sa farne l'uso migliore. È questo ciò a cui servono liberalizzazioni e mercati ben funzionanti. È per questo che occorre premiare il merito nel sistema dell'istruzione e della ricerca. Ed è sempre per questa ragione che è sbagliato l'assistenzialismo di chi vuole tenere in vita impianti poco produttivi come Termini Imerese.
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