Silvio Berlusconi ha un problema di non poco conto. Dimostrare agli italiani che nel patto con Bossi – un asse strategico destinato a durare fino al termine della legislatura – è lui, il presidente del Consiglio, l'elemento trainante. In una parola, il leader: colui che impone l'agenda. Non è questione secondaria. Anzi, è il nodo cruciale del prossimo futuro. Lo scenario politico cambierebbe, soprattutto nella percezione dell'opinione pubblica, se passasse l'idea che il premier «ombra» ormai è Bossi e che Berlusconi è costretto ad accettare, non solo l'autonomia, ma addirittura una sorta di egemonia da parte della Lega.
Nei prossimi tre anni il presidente del Consiglio sa di dover mantenere l'iniziativa. Non può permettersi di lasciare alla Lega lo scettro del partito più riformatore, salvo che sul punto del federalismo, peraltro il più complesso, vecchio cavallo di battaglia del Carroccio. Non sarà un compito facile, ma l'alleanza competitiva con i leghisti impone questa regola.
Tanto più che il primo segnale è significativo. I due governatori neoeletti di Piemonte e Veneto, Cota e Zaia, hanno preso una posizione intransigente sulla pillola abortiva, la Ru486, annunciando che non la metteranno in vendita. È una linea gradita alla Chiesa, ma che cozza con le norme dello Stato, in particolare con la legge 194 regolatrice dell'aborto. Difatti in altre regioni, pure governate dal centrodestra, si segue un diverso indirizzo. Nella Lombardia guidata dal cattolico Formigoni è previsto il ricovero della donna nelle strutture ospedaliere e la somministrazione del farmaco sotto controllo medico.
In sostanza, i due neofiti hanno corretto la linea. Senza concordare la novità con l'alleato berlusconiano e senza preoccuparsi troppo delle conseguenze. È possibile che si tratti solo di un fuoco di paglia mediatico, o di un modo per ringraziare la Chiesa del sostegno ricevuto. Ma in ogni caso si dimostra che la Lega marcia con i suoi ritmi e secondo le proprie logiche. Sempre e comunque. E che compito di Berlusconi sarà di ricomporre di volta in volta il mosaico dell'alleanza: con l'aiuto dell'amico Bossi, ma camminando in salita.
Ecco perché il presidente del Consiglio prova a intestarsi la «grande riforma». Un trittico ambizioso che comprende la riforma dello Stato (federalismo e presidenzialismo), giustizia e fisco. Il sottinteso è che due temi e mezzo su tre sono berlusconiani, quindi la leadership del confronto appare saldamente a Palazzo Chigi. Eppure si tratterà di vedere in concreto chi riuscirà a guidare il gioco. Non è scontato che la Lega accetti i ritmi e le priorità imposti dal premier. Per Bossi è troppo importante verificare in prima persona qual è l'orientamento del centrosinistra. Anche per evitare i soliti scogli legati alla giustizia.
E in verità Bersani preferisce tenersi le mani libere. Lascia uno spiraglio aperto, richiamandosi alla «bozza Violante», ma al tempo stesso chiede a Berlusconi di andare in Parlamento a discutere nel merito. È un gioco tattico prevedibile, ma il Pd dovrà fare di più. Nel giorno in cui il premier comincia a usare «facebook», i democratici non possono apparire impacciati e conservatori. Forse più che una maggiore «aggressività», come vorrebbe Veltroni, servirebbe una convinta capacità di misurarsi con il centrodestra, senza timore, sul terreno delle riforme. Compresi tutti i risvolti del federalismo leghista.