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PIT STOP / La Cei, il Sud e quel che Sturzo non ha detto

di Guido Gentili

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2 Marzo 2010

«Solidale» è la parola chiave del documento che la Conferenza episcopale italiana (Cei) ha dedicato al Sud. Un documento atteso - intitolato per l'appunto Per un paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno - che affronta la questione meridionale a vent'anni da un analogo testo (Sviluppo nella solidarietà) e che porta i vescovi nel pieno del dibattito politico, definendo anche i principi che dovrebbero ispirare il nuovo "federalismo solidale".
Che la Chiesa (chi non ricorda l'uccisione per mano della mafia nel 1993 di don Pino Puglisi, parroco a Palermo?) voglia far sentire la sua voce su questo terreno accidentato sotto ogni profilo è fuori discussione. Di più: il suo contributo, al pari della presenza dello stato, può essere decisivo, nel capillare sforzo per scuotere le persone, infondendo fiducia e speranza.
Per questo appare meno convincente il quadro di riferimento, anche culturale e politico, che fa da sfondo al proposto modello di «federalismo solidale». Quadro che - tra il cancro di mafie ed ecomafie, inadeguatezze delle classi dirigenti, esigenza del gioco di squadra, familismo, Sud collettore di voti, mancanza di legalità e senso civico - oscilla sociologicamente a metà strada tra Gomorra di Roberto Saviano e le parole d'ordine da corso intensivo per aspiranti manager. E così anche la «sfida educativa sul versante intraecclesiale della catechesi nelle parrocchie e in ogni realtà associativa va ripensata e rinnovata, e dev'è essere dotata il più possibile di un'efficacia perfomattiva».
C'è la performance, nel documento Cei, ma non il miracolo. Almeno quello a tutto tondo. La stessa moltiplicazione dei pani e dei pesci, richiamata a titolo di esemplarità della condivisione per riflettere sulla condizione del Sud, s'accuccia in qualcosa di più ordinario e meno folgorante: «Una triplice scansione dell'intervento in favore della folla. C'è anzitutto l'osservazione obiettiva della situazione, segue il calcolo concreto delle risorse disponibili e la realistica consapevolezza del deficit con cui fare i conti, infine troviamo l'assunzione di una responsabilità per gli altri, che si compie nello spazio creativo dell'iniziativa divina». Sembra un (inevitabile ma responsabile) sforamento ante litteram dei parametri europei di Maastricht.
Quanto al «federalismo solidale», cui viene accostato il nome di don Luigi Sturzo, esso non può significare differenze e anche la «corretta applicazione del federalismo fiscale non sarà sufficiente» e dunque lo stato dovrà intervenire per «perequare le risorse». Ferma restando, naturalmente, l'auto-propulsione del Sud e la lotta alla deriva assistenziale.
Ma ecco il punto. Che cosa pensava già negli anni Venti del secolo scorso proprio Sturzo, fondatore del Partito popolare, siciliano di Caltagirone e antistatalista convinto? Questo: «Lasciate che noi del Meridione possiamo amministrarci da soli, da noi designare il nostro indirizzo finanziario, distribuire i nostri tributi, assumere le responsabilità delle nostre opere, trovare l'iniziativa dei rimedi dei nostri mali». Analisi chiara che resta attuale. Difficile immaginare un Mezzogiorno in crescita senza un federalismo vero, a suo modo competitivo. Quello perequatitivo (per principio o necessità permanente) diventa sempre assistenziale e sprecone. Per il Sud e l'Italia tutta.

guido.gentili@ilsole24ore.com

2 Marzo 2010
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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