C'è una differenza di fondo fra il caso di Roberto Formigoni in Lombardia e il pozzo nero in cui è precipitata la lista del Pdl nel Lazio. Là si tratta di firme solo in parte irregolari ed è assai plausibile che il ricorso del governatore della Lombardia potrà essere accolto, sulla scorta di passate sentenze del Consiglio di Stato. Qui invece il vicolo è davvero cieco e fino a ieri sera nessun giurista era riuscito a suggerire una via d'uscita per restituire al partito di Berlusconi il suo posto sulla scheda.
Tuttavia le due vicende hanno un punto in comune. Sono il prodotto di una battaglia politica che i radicali hanno avviato, facendo come al solito molto rumore, per affermare il rispetto delle regole. Ed è stato come infilare un bastone dentro un alveare. Si è visto subito che il sistema elettorale si regge quasi ovunque su di una legislazione tanto barocca quanto disattesa. Una lunga catena fatta di piccole e grandi violazioni, o se si vuole di piccoli e grandi soprusi rispetto ai quali chi dovrebbe controllare tende a chiudere un occhio. Finchè qualcuno - per pignoleria o piuttosto perchè ha deciso di creare il caso politico - decide di mettersi di traverso. E il sistema rischia di collassare proprio perchè non è abituato a tale, chiamiamolo così, controllo di legalità.
Le conseguenze sono quelle che vediamo in queste ore. Nessuno sa come regolarsi e le reazioni sono talvolta grottesche.
In Lombardia, per la verità, Formigoni ha saputo mantenere i nervi saldi e le pronunce del Consiglio di Stato gli permetteranno di raggiungere la riva. Del resto, sarebbe francamente assurdo se il governatore e l'intero centrodestra che lo sostiene da anni fossero esclusi dal voto. Sarebbe un insulto al buon senso. Tuttavia la grande paura di ieri, a parte le ironie di Bossi, a qualcosa servirà: a dimostrare che le leggi, finchè ci sono, vanno rispettate senza eccezioni. E questo riguarda la Lombardia come tutte le altre regioni: comprese quelle governate dalla sinistra, dove pure le regole elettorali vengono spesso osservate con una certa approssimazione. E con quel pizzico di arroganza con cui i partiti maggiori, a cominciare dal Pd, guardano alle forze minori.
Il cuore della questione è comunque nel Lazio. Qui la reazione del Pdl è alquanto scomposta. Gridare alla «democrazia minacciata» non è molto credibile, visto che il centrodestra può solo prendersela con se stesso. Tanto meno lo è denunciare i radicali, accusandoli di avere usato violenza ai galoppini del Pdl. È chiaro che si tratta di una mossa disperata, alla ricerca di un appiglio purchessia per indurre la magistratura al compromesso.
Sarebbe meglio invece che si riconoscessero gli errori commessi, senza l'inutile appello al Quirinale. Se c'è un problema di fondo che investe il rispetto delle regole, forse è da qui che si dovrebbe ripartire. Ma la stagione elettorale non è il momento migliore per questo genere di ammissioni. Ecco perchè l'alveare impazzito farà danni ancora a lungo. Una situazione al limite del paradosso, su cui Emma Bonino costruisce un pezzo importante della sua campagna. I radicali sono riusciti a mettersi al centro della scena, benchè Renata Polverini abbia i mezzi per conquistarsi il consenso anche senza il concorso della lista berlusconiana.
Resta il fatto che la politica a tutti i livelli, al centro come nelle regioni e negli enti locali, ha bisogno di un bagno di legalità. Senza strillare ai «complotti». E fa bene Maroni a dire che il governo non interverrà.