Questo ulteriore volume sulla storia dell'Abi è dedicato al 1972-1991. Attraverso l'Abi, vengono ripercorse le vicende del sistema finanziario italiano in quel ventennio.
L'industria finanziaria che avevamo ereditato dagli anni Trenta doveva cambiare. Menichella l'aveva configurata come una formidabile macchina per trasferire in condizioni di stabilità flussi crescenti di risparmio aggregato dalle famiglie alle imprese, nell'intenso processo di accumulazione del capitale del 1950-1970. Il contributo congiunto di quantità di capitale e progresso tecnico "spiega" per 4/5 la crescita, inimitabile, prossima al 6% l'anno del prodotto, nel miracolo economico.
Efficienza dinamica nella riallocazione delle risorse - fra progetti d'investimento, settori, imprese - è invece ciò che l'economia italiana veniva a richiedere nella crisi da stagflation inaugurata dall'autunno caldo del 1969 e poi rilanciata lungo l'intero arco di tempo considerato nel volume dai reiterati shock salariali, petroliferi, di bilancio pubblico. L'industria della finanza doveva cambiare in tre fondamentali direzioni: più concorrenza e imprenditorialità, più mercato, più prodotti.
Resistenze inerziali al cambiamento sono connaturate alla finanza, fondata sulla tradizione e sulla reputazione. Allora ve ne furono, nella stessa comprensione analitica delle nuove esigenze e nella prospettazione del quid agendum. Ve ne furono all'interno della Banca d'Italia. Ve ne furono, forse ancor più, nell'Abi dei primi anni Settanta. In Banca d'Italia la percezione della necessità di cambiare il sistema lungo le tre direttrici richiamate, maturò pienamente nella seconda metà degli anni Settanta. L'azione della Banca si fece intensa negli anni Ottanta.
Il sistema finanziario alla fine rispose. Si trattò, come ho scritto altrove, di una vera e propria metamorfosi. Nel linguaggio di Giuliano Amato, la foresta, se era pietrificata nelle fronde, non lo era affatto nelle radici. La trasformazione, graduale, sofferta, si dispiegò negli anni Novanta. I mutamenti possono così riassumersi: dagli intermediari ai mercati; altri operatori, diverse formule organizzative, nuovi strumenti; da pubblico a privato; apertura internazionale; modalità ammodernate nei pagamenti e nelle transazioni in titoli; risparmio delegato; derivati per la copertura e la ripartizione del rischio; soprattutto, concorrenza.
Il cambiamento strutturale della finanza ha contribuito al Pil reale pro capite in una misura che ho stimato nello 0,3% l'anno, composto, nel 1985-1998. Non è poco, per un'economia avviata al ristagno.
Non hanno natura finanziaria i due mali, gravissimi, che l'economia italiana oggi vive. Un mal sottile, dal 1992, nella forma del crollo della produttività e della capacità di esportare delle imprese industriali: male esiziale, che governi e imprese tuttora non affrontano. In secondo luogo, la contrazione produttiva (-6% il Pil) del 2008 e del 2009 non ha l'eguale nella nostra storia. È iniziata prima del tracollo di Lehman Brothers e della finanza anglosassone, che non ha toccato le banche italiane. Perdura nel 2010, anche perché la politica economica non la affronta collegando misure anticongiunturali a misure di struttura.
Conti pubblici; infrastrutture fisiche e giuridiche; spinte concorrenziali; dinamismo d'impresa: sono, questi, i quattro settori nei quali s'impongono provvedimenti strutturali (come ho mostrato nel saggio Ricchi per sempre?). Attraverso le aspettative, l'impostazione di quelle misure promuoverebbe, di per sé, un'espansione superiore a quella prevista per il 2010-11, che è del tutto insufficiente al recupero dell'occupazione. All'incremento della spesa privata per consumi e per investimenti potrebbe unirsi il temporaneo apporto della domanda pubblica. Non vi sarebbero aggravi del premio al rischio sul debito pubblico, se un ragionevole extra-deficit venisse inscritto in un programma volto, nel medio periodo, a risanare i conti dello stato e a riformare assetti nevralgici del sistema economico. È quanto la finanza mondiale chiede da anni all'Italia.
Nella retrospettiva, è certo che, se la mutazione dell'industria finanziaria italiana avesse tardato, tanto il ristagno tendenziale quanto la contrazione ciclica si sarebbero aggravati. I presupposti di quella mutazione si realizzarono anche attraverso la storia dell'Abi, con il concorso dell'Abi, negli anni a cui il bel volume curato da Asso e Nerozzi è dedicato.
* Ex vicedirettore Banca d'Italia