Cosa sta succedendo alle élite europee? Quanto si stanno rivelando inefficaci gli strumenti classici di interpretazione dell'economia e della società? Il voto di oggi in Irlanda, per la ratifica del Trattato di Lisbona, è soltanto un capitolo dello scollamento che, sempre più, sembra prodursi fra i ceti dirigenti e «l'oscuro volgo che nome non ha», per dirla manzonianamente. A Dublino, ma anche in quella Irlanda profonda che non ha conosciuto i fasti della finanziarizzazione dell'economia e che più sta pagando gli effetti della crisi, si profila una spaccatura: tecnocrazia e leadership istituzionale da un lato a favore del sì e, dall'altro, un corpo sociale sfuggente, difficile da interpretare nelle sue paure e nei suoi bisogni, che invece potrebbe votare in misura non irrilevante per il no. Il caso irlandese parla al mondo. Negli ultimi 15 anni, pezzi interi di classi dirigenti in Europa e in Italia hanno sottovalutato fenomeni nati nella "pancia" del paese: per esempio, da noi l'affermarsi della piccola impresa e del popolo delle partite Iva e il ritrovato interesse per l'identità territoriale. La cultura delle élite, se davvero lo sono, ha sempre bisogno di radici.