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Quando si muore non si muore soli

di Davide Rondoni

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2 ottobre 2009

Vorrei provare, se ancora è possibile, a rovesciare l'andamento solito delle discussioni su temi come il testamento biologico. E cioè risalire dalla vicenda politica o dalle dietrologie a cui tutto, maledettamente tutto sembra ridursi in questo sventurato e magnifico paese, alla vicenda esistenziale, al problema culturale. O per meglio dire al groppo in gola, al magone, insomma al serrarsi in gola di, e in cuore di, una densità di vita quasi spaventosa, enorme nel suo mistero.

Perché discutere di come morire fa venire in mente le facce degli amici che si trovano o si sono trovati su quel margine, su quel crinale. Dunque vorrei, se ancora si potesse, prender pretesto dalla vicenda politica per andar al cuore della vicenda umana e quindi culturale che ci riguarda, e non il contrario, non il solito movimento contrario che riduce il problema e la maestà della vita a faccenda parlamentare, a schieramenti a chiacchiera politica.

Il problema che sta dentro la vicenda del testamento biologico è riassumibile in una domanda: io immagino la mia vita e la mia morte in solitudine?
Cioè immagino la mia vita come una corsa che va e che si arresta, quando arrestarsi dovrà, in una specie di assoluta (ab-soluta, sciolta da legami buoni, affettivi) solitudine? Se sì, allora è naturale che mi aggrappi a un testamento che blindi la mia volontà individuale, e a quella parola algida, filosoficamente debole e per certi aspetti comica che è: autodeterminazione. Parola che nella vita reale non indica niente di veramente reale. Non ci autodeterminiamo in niente, mai. Nemmeno decidiamo quando nascere e come siamo fisicamente fatti. E nemmeno il nostro carattere. Nemmeno di chi ci innamoriamo. O cosa ci addolora. O se ci piacciono di più i fichi o le fragole. Nemmeno come saranno i nostri figli per quanto possiamo programmarli. Non ci autodeterminiamo in niente - accettiamo addirittura che le leggi dello stato entrino nella nostra vita pesantemente in molti campi: il fisco, il codice della strada, i confini della proprietà...

Addirittura la legge oggi poiché non considera le persone come isole, prevede il risarcimento ai parenti delle vittime per la perdita in senso psicologico del legame reciso. Insomma, mi immagino di vivere (e morire) come una specie di monade, o dentro una serie di relazioni - lasciamo stare Dio, non c'entra - che possono nella vita accompagnarmi, e nella morte accompagnarmi in un modalità che cerchi il mio bene, il meglio per me? La solitudine è il male di oggi, l'uomo monade. E autodeterminazione è il nome della sua ideologia. Perché se un uomo non si immagina da solo, non ha bisogno di decidere in modo astratto - chi sa quanto informato - come morire o come non morire. Non ci sarebbe bisogno, in un mondo di uomini non soli, di fare il testamento a cui lo stato e i suoi rappresentanti si devono attenere per la mia buona morte. Ci penserebbero i miei cari, i medici scelti da me o da loro. Stabilendo con libertà e responsabilità quando la cura diviene accanimento.

Invece un uomo da solo di fronte allo stato, un uomo che si difende dalla ingerenza degli "altri", ha bisogno di stabilire fin nei particolari se il sondino di alimentazione va tenuto sì o no e altre assurdità del genere. Questa legge che stanno discutendo è l'immagine di una società di uomini soli, che hanno ansia di autodeterminarsi di fronte al potere dello stato, perché tra ognuno di loro e lo stato non c'è più nessuno di cui si fidano, nessuno a cui affidarsi. Insisto, non c'entra l'idea di Dio, ma l'idea che abbiamo di noi stessi e degli altri. Per questo la presunta autodeterminazione è in realtà l'ideologia del disfarsi delle relazioni. E quindi l'ideologia totalitaria della società. Solo l'individuo e lo stato. Nessun altro, nei momenti che contano.

Se poi la comunità medica è per la maggior parte propensa a pensare che l'alimentazione e l'idratazione artificiali non sono pratiche terapeutiche accanite, mi sembra naturale che questa legge a cui si è voluto-dovuto arrivare per una forzatura giuridica, mediatica e politica (come dimostra l'esito e la carriera dei protagonisti) rispetti tale convinzione. Ma se anche fosse una minoranza di medici, beh, l'amore e il rispetto della vita, porterebbe comunque ad essere cauti nel dare via a una legge che in sostanza direbbe: se la vita ti è divenuta insopportabile trova uno con il distintivo di dipendente dello Stato che sia disposto a ucciderti e nessuno ha diritto di intervenire. Ma insisto, il problema è prima della legge e delle inevitabili diatribe che essa porta. È prima dello scontato e un po' vile sport di ridurre la cosa a faccenda di scambi governo-Vaticano, come per non discutere veramente, culturalmente, umanamente. Come per non discutere concretamente di questo cedimento, di questa voluttà di solitudine. Il problema sta prima, non si cerchi la scorciatoia di ridurre tutto a politica, a polemica da ammuffito retrobottega di pettegolezzi.

È un problema che c'entra con tanti altri fenomeni che vediamo nella nostra società. È come si pensa a sé, vivi o moribondi. Soli o insieme a qualcuno che amiamo e che ci vuol davvero bene. Una legge che nasce da un'idea di cattiva solitudine e che la favorisce non sarà mai che una legge cattiva.

2 ottobre 2009
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