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ITALIA 2015 / Nuove radici per crescere alti

di Stefano Micossi

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20 Dicembre 2009

Emma Marcegaglia ha lanciato l'idea di un progetto 2015 per l'Italia. È buona l'idea di darsi un orizzonte lungo per obiettivi ambiziosi. Si può provare a ragionare invece per modifiche incrementali della situazione attuale, immaginando come dovrebbe essere l'Italia che vorremmo e provando a disegnare le condizioni per realizzarla. Naturalmente, la condizione dirimente è di uscire dal clima politico di irriducibile conflitto che paralizza ogni capacità di decisione e che ci ha condotto, dal punto di vista dell'economia, in un vicolo cieco.
Al di là di alcuni elementi di forza relativa che hanno attenuato finora l'impatto della crisi finanziaria, l'Italia è un paese che non sa più crescere, dal quale fuggono i capitali e fuggono i giovani. Da tre lustri, la ricerca del consenso ha fatto premio sulle esigenze di stabilità dei conti pubblici; ha condotto a un'occupazione minuta delle amministrazioni e delle aziende di servizio, fino a renderle incapaci di funzionare.
Non servono adattamenti minori, un po' più di flessibilità, qualche modifica al welfare, qualche opera pubblica. Servono mutamenti radicali che attacchino in profondità le cause della nostra malattia.
Anzitutto, la sfida della globalizzazione deve essere affrontata a viso aperto, senza cercare rifugio nelle protezioni dal mercato: chi si chiude, langue e alla fine perisce. Per questo, dobbiamo puntare con determinazione a creare un sistema educativo e di ricerca fortemente competitivo, dotarci di infrastrutture e servizi pubblici di prim'ordine, eliminare il sistema diffuso di protezione derivante dai sussidi all'economia, gli appalti protetti, i vincoli che impediscono investimenti adeguati nelle comunicazione e nei trasporti.
Le riforme più importanti riguardano il settore pubblico, la fonte principale dei nostri guai. La spesa pubblica corrente dovrebbe essere ridotta di 5 punti percentuali, in rapporto al Pil, con un programma pluriennale centrato sul blocco del turnover e delle retribuzioni reali dell'impiego pubblico, il rispetto rigoroso del vincolo di bilancio in tutte le amministrazioni e gli enti, l'applicazione di sistemi efficaci di costo standard nella prestazione dei servizi, la piena attuazione delle regole europee sugli appalti pubblici per tutte le forniture e le opere. Serve una drastica riduzione dei costi della politica. Altri paesi lo stanno facendo, possiamo farlo anche noi.
Le riduzioni di spesa consentirebbero di abbattere i carichi fiscali sulle imprese e sul lavoro e di semplificare davvero il sistema dei tributi; soprattutto, sarebbe di nuovo possibile offrire agli investitori un quadro fiscale stabile e prevedibile, nel quale ogni pericolo di confisca estemporanea dei frutti del capitale sarebbe escluso. Il debito pubblico tornerebbe rapidamente sotto il livello del Pil.
Serve una vera rivoluzione nei due grandi sistemi dell'università e della sanità: attribuendo ai cittadini-utenti la scelta sulla destinazione dei finanziamenti, legandola in parte preponderante al numero effettivo di utenti. Per non chiudere, le università e gli ospedali inefficienti sarebbero costretti a migliorarsi; vi sarebbe una sana competizione per attirare i professori, i medici e gli studenti migliori. Anche il sistema di spartizione inerziale dei fondi di ricerca tra le baronie universitarie e gli enti di ricerca deve essere smantellato, sostituendolo da uno nuovo nel quale i fondi siano assegnati in base all'eccellenza dei progetti, valutata da commissioni indipendenti. Nel giro di pochi anni si dovrebbero triplicare gli stanziamenti per la ricerca - fino al 3% del Pil; senza dubbio, nel mutato quadro di incentivi, anche l'investimento delle imprese per la ricerca farebbe un balzo, grazie alla qualità dei progetti.
Anche le imprese devono sopportare sacrifici. L'inefficiente sistema di distribuzione di sussidi pubblici, fonte distorsioni e malaffare, può essere azzerato nell'arco di un triennio, di pari passo con l'abbattimento dei carichi fiscali. La politica industriale dovrebbe identificare poche grandi priorità tecnologiche e infrastrutturali, perseguite attraverso una feroce concentrazione degli investimenti pubblici e dei fondi comunitari. Serve un forte investimento nella legalità, per sconfiggere la criminalità organizzata; le risorse necessarie possono essere trovate nei fondi comunitari, sottraendole ai tanti progetti inutili.
I salari dovrebbero essere legati strettamente alla produttività: per questo, l'attuazione piena dell'accordo per ora firmato con Confindustria solo da alcuni sindacati sarebbe un grande passo in avanti. Naturalmente, l'accresciuta flessibilità dovrebbe accompagnarsi al rafforzamento dei sostegni alla disoccupazione e alla riconversione dei lavoratori, puntando però ad accelerare il cambiamento nell'economia, non a frenarlo.
Ogni interferenza indebita della politica nel funzionamento del mercato dovrebbe esser bandita, ma si dovrebbe imporre in cambio il rispetto rigoroso delle regole fiscali e di concorrenza, come delle concessioni per la gestione delle infrastrutture e dei servizi pubblici.
  CONTINUA ...»

20 Dicembre 2009
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