Liberi o controllati? È da quasi un decennio che il Fondo monetario internazionale s'interroga sull'opportunità di limitare i flussi di capitale dall'estero, soprattutto nei paesi emergenti, più vulnerabili a improvvisi inversioni di marcia della corrente. Un tempo non era così: negli anni 80 e 90 la libertà dei capitali era un ingrediente fondamentale del Washington Consensus, la ricetta applicata dal Fondo ai paesi emergenti. Non però la versione originariamente forgiata da John Williamson, che metteva la questione in secondo piano; ma la successiva, quella che l'economista americano definì "grottesca".
Le cose cominciarono a cambiare quando nel '97 scoppiò la crisi asiatica e soprattutto, l'anno dopo, con lo strappo della Malaysia che non solo "chiuse le frontiere" - introdusse una tassa sugli investimenti esteri di durata inferiore a un anno - opponendosi alle indicazioni del Fondo, ma riuscì a emergere dalla crisi più rapidamente degli altri. Per il Fondo la lezione fu dura, e l'ufficio studi di Washington si attivò presto per capire che cosa fosse accaduto: «La Malaysia è chiaramente una storia di successo», riconobbe nel 2001. Aggiungendo: «I controlli sulle transazioni internazionali in ringgit hanno aiutato a ridurre la speculazione contro la valuta», riducendo solo temporaneamente la capacità del paese di accedere ai mercati internazionali. Dal 2002 cominciò quindi a comparire, nelle raccomandazioni del Fondo, qualche cautela in più rispetto al passato: «Una piena liberalizzazione dei capitali dovrebbe andare avanti solo dopo che è stata migliorata la situazione macroeconomica e quella del settore finanziario», spiegò per esempio alle autorità dello Sri Lanka, un paese politicamente diviso e dallo sviluppo economico molto diseguale.
Già nel '98 l'esperienza della Malaysia non era isolata. Il Cile, laboratorio del liberismo mondiale, aveva introdotto fin dal '91 tassi sulle operazioni potenzialmente più speculative, seguito nel '93 dalla Colombia e da quello stesso Brasile che qualche settimana fa - insieme a Taiwan - ha introdotto nuove imposte sui capitali a breve termine. Nel 2003, in una ricerca "ufficiale" affidata a un team guidato dall'ex direttore generale Kenneth Rogoff, il Fondo poté quindi fare il punto della situazione: «Non si può dire che la globalizzazione finanziaria crei sempre crescita economica», spiegava lo studio citando i casi di Perù e Giordania, "aperti" ma lenti. «Il processo di liberalizzazione dei capitali sembra essere stato accompagnato in alcuni casi da una maggiore vulnerabilità alle crisi - riconobbe il lavoro -. A bassi livelli d'integrazione finanziaria un suo incremento è associato con una crescita nella volatilità relativa (quindi del disordine e dell'imprevedibilità, ndr) dei consumi. Tuttavia una volta che il livello dell'integrazione finanziaria ha raggiunto una certa soglia, l'associazione diventa negativa», anche se è difficile individuare dove si collochi esattamente la soglia.
Emergeva già allora un evidente fallimento del mercato. «Gli investitori internazionali hanno la tendenza a operare sulla spinta d'impulsi oppure "in gregge" con effetti che possono essere destabilizzanti per le economie in via di sviluppo. Possono (insieme con i residenti) scatenare attacchi speculativi alle valute, causando così un'instabilità non giustificata in base ai fondamentali politici ed economici».
«Le prove presentate in questo studio - concludeva già allora il Fondo - suggeriscono che l'integrazione finanziaria dovrebbe essere affrontata con cautela, con buone istituzioni e in una cornice macroeconomica importante». La stessa prudenza è però necessaria quando si introducono nuovi controlli. È la lezione della Thailandia che nel 2006 tentò di frenare il rialzo del baht: il risultato fu un aumento dell'instabilità finanziaria mentre la valuta non perse davvero terreno come si era sperato.