I l libero movimento dei capitali è stato fino ad oggi uno dei pilastri del credo e delle ricette di politica economica dell'Fmi. Un saggio pubblicato ieri, scritto tra gli altri da Jonathan Ostry, vicedirettore del dipartimento della ricerca, e dunque ammantato di ufficialità, inverte la rotta e suggerisce che in particolari circostanze nei paesi emergenti alcuni controlli sui movimenti di capitale a breve termine potrebbero essere utili.
Con lo stabilizzarsi dei mercati nei prossimi mesi si prevede un forte afflusso di risorse verso le economie in rapida crescita dell'Asia e dell'America latina: oltre 700 miliardi di dollari secondo l'Institute of International Finance contro 435 nel 2009. Ora, sostiene il Fondo, questa massa di denaro può essere fonte d'instabilità, gonfiare il valore di titoli finanziari e soffiare su pericolose bolle immobiliari.
Se poi questa corrente è spinta dal differenziale dei tassi, artificialmente bassi nei paesi industrializzati, un rapido riallineamento dei rendimenti dei titoli potrebbe determinare un'inversione dei flussi con effetti devastanti sulle economie emergenti.
Se la proposta può avere del merito, sembra dettata più che altro da un ansia post-crisi e sarebbe poco efficace. I controlli sui movimenti di capitale possono essere una misura d'ultima istanza per paesi che abbiano già un tasso di cambio sopravvalutato e che non siano in grado d'accumulare riserve valutarie senza indurre squilibri macroeconomici interni, come un aumento dell'inflazione. In realtà, le economie che più attraggono risorse oggi, hanno un surplus nelle partite correnti (ossia esportano più di quanto importino) e, Cina in testa, un cambio molto sottovalutato. Una restrizione sui movimenti di capitale sarebbe quindi, paradossalmente, un modo per rallentare le pressioni al rialzo sullo yuan.
A supporto della proposta, gli economisti del Fondo sostengono che i mercati finanziari dei paesi che avevano controlli sui capitali abbiano sofferto di un minor rallentamento nella crescita durante la crisi. In realtà è molto probabile che nei paesi che avevano dei controlli sui capitali ci fosse anche una scarsa diffusione di strumenti innovativi ad alta volatilità e rischio, perché i mercati finanziari locali non erano sufficientemente evoluti. Da questo punto di vista, insidiosa e molto poco condivisibile è l'affermazione che gli investimenti diretti nel settore finanziario abbiano contribuito (e possano in futuro farlo) a rafforzare l'instabilità nei mercati di questi paesi. Secondo gli economisti del Fondo, le banche multinazionali potrebbero sottrarre rapidamente risorse a mercati periferici in difficoltà, travasandole verso paesi in migliori condizioni. In realtà i gruppi bancari globali hanno storicamente esercitato un ruolo essenziale nello sviluppo del settore finanziario nelle economie emergenti. E l'evidenza recente dimostra come in media gli impieghi delle filiali di banche straniere nei paesi ospiti, anche emergenti, siano stati più stabili e meno volatili di quelli delle banche locali.
Insomma, la proposta del Fondo sembra dettata dall'ansia di regole che caratterizza il dibattito politico di questa fase. Una riforma a livello globale è certamente necessaria, ma rallentare l'integrazione dei mercati non è la direzione giusta.