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I TORMENTI DI EUROLANDIA /
Swap? No, si chiama debito

di Marco Onado

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20 febbraio 2010

La Grecia ha preso alla lettera Oscar Wilde, che diceva: «Poca sincerità è una cosa pericolosa, ma una totale sincerità è assolutamente fatale». Al momento di presentare i conti delle finanze pubbliche per essere ammessi nell'area dell'euro, il governo ha quindi nascosto una parte dei debiti sotto il tappeto mediante cartolarizzazioni quanto meno osé e varie operazioni su derivati. Adesso tutti si stupiscono e s'indignano: il governo greco annuncia un'inchiesta parlamentare (ovviamente severa, anche perché la responsabilità sarebbe del partito oggi all'opposizione), la Commissione europea pretende un dettagliato rapporto sulle operazioni compiute fra il 2001 e il 2008 e Angela Merkel tuona contro le banche che hanno ordito il complotto.

In effetti, il caso greco di oggi è solo l'ultima dimostrazione di quanto la finanza moderna, con le sue continue innovazioni, stia rendendo sempre più labile il confine fra la realtà economica e la sua rappresentazione contabile, sia per un singolo operatore, sia per un paese nel suo complesso. La polemica di oggi si aggiunge all'infinito contenzioso che, solo per riferirsi al nostro paese, va dal caso dell'equity swap di Fiat a quello dei derivati sottoscritti dai comuni italiani.

Un tempo, per assumere un impegno si doveva necessariamente passare dall'accensione di un debito; di conseguenza, presentando correttamente la propria posizione patrimoniale si forniva un'informazione adeguata sugli impegni in essere. E il conto delle entrate e delle uscite dell'anno era alimentato dalle voci tipiche della gestione di ciascun operatore: le spese e le entrate correnti per uno stato, i costi e i ricavi per un'azienda.

Oggi è tutto più complicato. Si possono costruire derivati in cui una delle parti incassa oggi una somma, che è semplicemente il valore contabile attuale di un onere maggiore che si scaricherà lungo tutta la vita del contratto. Lo stesso vale per le securitisation: oggi è possibile trasformare in titoli, e quindi in un incasso immediato, qualsiasi flusso futuro di entrate ragionevolmente stabili. Dai pedaggi autostradali alle lotterie, tutto può essere usato per incassare subito una somma, ovviamente a spese di una minore entrata domani. Con sottile perversione, sembra che la Grecia abbia usato una securitisation a valere sull'incasso di fondi strutturali dall'Unione Europea per ridurre il debito statale ed entrare nell'euro. L'operazione più controversa è quella stipulata con Goldman Sachs nel 2002 (quindi un anno dopo l'ingresso nell'euro) che ha consentito di ridurre il debito apparente di 5 miliardi di dollari, grazie a uno swap in valuta in cui una delle componenti era a netto sfavore della Grecia e rappresentava una forma di debito per il futuro.

È facile rappresentare le banche come il gatto e la volpe che vogliono far credere a Pinocchio che esista la pianta degli zecchini d'oro, ma è noto che queste operazioni non solo erano conosciute alla generalità degli operatori, ma erano anche assai comuni, tanto che analoga operazione era stata posta in essere dall'Italia nel 1997. Ma c'è di più: all'epoca, il manuale sulla contabilità pubblica dell'Unione Europea consentiva agli stati membri l'uso di derivati. Solo successivamente sono state emanate disposizioni più restrittive e da allora, secondo il governo greco e i suoi banchieri, operazioni simili non sono state più compiute.

In altre parole, le norme sono arrivate quando i buoi erano scappati dalla stalla da un pezzo. Ma non può che essere così, fino a quando ci si ostina a voler emanare norme talmente dettagliate da comprendere ogni fattispecie possibile, in modo da decidere sulla base di criteri formali se ciascuna è lecita o no. È peggio della mappa 1:1 di Borges che riporta ogni minimo dettaglio del territorio, ma che è perfettamente inutile. In questo caso, si tratta di una pretesa impossibile, perché l'innovazione finanziaria è sempre più veloce delle regole e non c'è nulla che stimoli la fantasia dei banchieri come la prospettiva d'incassare qualche centinaio di milioni di commissioni.

La battaglia per la trasparenza va combattuta sul fronte della sostanza non della forma, ma come i cartografi di cui parlava il poeta, i responsabili delle informazioni sulla contabilità pubblica e privata sembrano preoccupati solo di aggiungere dettagli su dettagli alle loro mappe. In questo modo, si tollerano per troppo tempo comportamenti che sono oggettivamente contrari ai principi di trasparenza e chiarezza che a parole si dichiara di voler tutelare. Per fare un altro esempio, basti pensare a quanti sforzi sono stati compiuti per attribuire natura di capitale a titoli bancari che poi alla prova dei fatti si sono rivelati molto più simili al debito.

Insomma, è l'eccesso di formalismo regolamentare che consente di occultare uno scambio che in realtà è un debito, oppure di far passare per capitale ciò che in realtà è un debito. Ed è proprio quel formalismo regolamentare che offre a chi cerca qualche forma d'elusione un facile alibi per dire di aver agito nel pieno rispetto della normativa esistente. Soprattutto in campo contabile abbiamo bisogno di normative di principio piuttosto che di regole minuziosamente dettagliate, inevitabilmente in ritardo rispetto al mondo reale. La sostanza non è difficile da definire perché alla fine, come avrebbe detto Gertrude Stein, «un debito è un debito e anche un bambino sa riconoscerlo».

20 febbraio 2010
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