Ogni tragedia, terremoti compresi, si lascia sempre dietro una scia di polemiche. Il dibattito su inefficienze, ritardi, inadempienze sostituisce in fretta la commozione, e scandisce la ricostruzione sul tamburo umanissimo del senso di colpa. Nel caso di Haiti, però, dire che prima viene la sicurezza e poi gli aiuti, che anzitutto occorre riportare l'ordine contro saccheggi e razzie è puro buon senso. Sostenere il contrario serve ad alleviare il rimorso, non ad avviare la ricostruzione. Haiti non è un paese qualunque e la sua storia, una lunga emergenza tra un colpo di stato e il successivo, è lì a dimostrarlo. Haiti non è l'Aquila: non si tratta di piantare tende e dare pasti caldi, ma di evitare che i più forti tra i deboli diano a tutti il colpo decisivo. Si tratta di far sì che il miliardo e passa di aiuti stanziato dall'Onu non ingrassi piccole e grandi mafie, non alimenti come dopo ogni guerra (e questo sisma, nelle conseguenze, lo è) l'eterno mercato nero che arricchisce pochi e ricaccia i più nella fame. Nell'ingorgo della ricostruzione della prima ora, non troviamo nulla di scandaloso se si dà strada ai marines prima o subito dietro i cargo alimentari. Sembrerà cinico, è solo razionale.