La mente va alla storia del topolino e della montagna. Mesi di trattative all'interno del governo, impegni roboanti da parte di alcuni ministri, confronto serrato con le parti sociali: ma alla fine per il sistema delle imprese è difficile sfuggire alla delusione. Il decreto incentivi varato ieri dal governo è un topolino piccolo, troppo piccolo per un paese che ha bisogno di stimoli vigorosi per rimettersi con decisione sul cammino della crescita.
L'anno scorso, di questi tempi, l'apparato produttivo italiano potè contare su incentivi per 900 milioni. Un'aspirina rispetto ai piani plurimiliardari di rilancio di altri paesi. Dodici mesi dopo, e con quasi 80 miliardi di Pil bruciati alle spalle, si riparte oggi da uno stanziamento tre volte inferiore.
È certamente positivo che a beneficiarne siano più settori industriali, ma molti sono rimasti fuori. Tra questi alcune produzioni strategiche del made in Italy come i mobili, tanto che è difficile sfuggire alla sensazione che talune opzioni dell'ultima ora siano state condizionate più dalle urne imminenti che da una obiettiva scala di priorità. La dote complessiva dell'intervento si è talmente ristretta, da garantire poco più di un rivolo d'acqua anche a chi è rientrato nella selezione. Questo significa che i consumatori e le imprese non avranno certezza di poter contare sugli incentivi per tutto l'anno. Con il rischio di determinare uno squilibrio temporale nella domanda e conseguenze negative sull'andamento del mercato.
Il governo fa bene a prestare attenzione alla tenuta dei conti. Questo giornale ha riconosciuto per primo i meriti del ministro Tremonti nel tener ferma la barra del rigore: allora non era di moda, oggi è giudizio condiviso. Ora però serve di più. E non è solo questione di incentivi.
Si prenda il settore delle costruzioni. Un comparto chiave per la crescita del Pil italiano. È dall'inizio della legislatura che, a colpi di delibere Cipe e fondi Fas, il governo ha periodicamente annunciato l'impegno di cifre da capogiro in opere più o meno grandi. Ma è di questi giorni la notizia che i costruttori italiani stanno preparando una serie di manifestazioni per protestare contro il mancato adempimento agli impegni presi.
Per il settore edile sarà utile lo snellimento burocratico per i lavori nelle abitazioni varato ieri, ma anche su questo gli annunci di quasi un anno fa facevano presagire ben altro. Pesa la previsione, contenuta nel programma di stabilità elaborato dal ministero dell'Economia, di una contrazione della spesa pubblica in conto capitale - cioè degli investimenti produttivi - di 8,3 miliardi a fronte di una crescita della spesa corrente di 46 miliardi.
Tra una settimana il paese andrà a votare. Si eleggono i consigli regionali, e come è triste prassi in Italia il sistema politico si avvia all'appuntamento in un clima da apocalisse. È encomiabile il Capo dello Stato, nel suo ripetuto appello a tenere bassi i toni polemici e a confrontarsi sui temi che davvero interessano il paese. Lavoro e sviluppo, sviluppo e lavoro: tutti i sondaggi mettono queste due priorità in testa alle preoccupazioni degli italiani. E' purtroppo certo che fino al 29 marzo si continuerà a parlar d'altro.
Subito dopo, però, sarà bene che tutti ripartano da quegli assi divergenti della spesa pubblica per invertirne il senso. Se la spesa per lo sviluppo non tornerà a salire, la sola domanda internazionale non potrà bastare a dare forza al sistema produttivo, con i suoi lavoratori e le sue imprese. Ridefinizione delle priorità della spesa pubblica, infrastrutture, un fisco meno oneroso, pensioni e welfare, servizi pubblici locali, educazione, innovazione, start up e ricerca: c'è un cantiere di riforme che va avviato senza perdere tempo. È su questa prova che governo e maggioranza saranno chiamati a dare un senso alla legislatura.