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Un federalismo ad personam

di Andrea Romano

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20 marzo 2010

Oggi a Roma, in piazza San Giovanni, i tredici candidati Pdl firmeranno alla presenza di Silvio Berlusconi un "Patto delle regioni" che impegna ciascun futuro governatore a coordinarsi con Roma. Solo poche ore prima, giovedì scorso a Genova, i candidati di centro-destra di Liguria, Piemonte, Lombardia e Veneto hanno fondato con un altro patto il "Quadrilatero del Nord" alla presenza di Umberto Bossi e Giulio Tremonti.
Se tra i due manifesti non esiste contraddizione formale, l'abbondanza di documenti pattizi a pochi giorni dalle elezioni regionali segnala un fenomeno che riguarda tanto il centro-destra quanto il centro-sinistra. Ovvero la diffusione di un regionalismo politico di segno disgregativo che cova all'interno dei partiti nazionali, che non richiede alcuna esplicita retorica di secessione ma che di fatto sta modificando la geografia politica del nostro paese con effetti potenzialmente esplosivi sull'unità nazionale.
Questo nuovo regionalismo si alimenta a una declinazione in chiave locale della personalizzazione della politica, con figure anche di grande carisma che riescono a intercettare il consenso dei propri cittadini intorno a piattaforme di segno eminentemente regionale e anti-centralistico.
Sono i Nichi Vendola con la capacità di andare oltre il neo-comunismo rinnovando il millenarismo pugliese a sfondo popolare, i Raffaele Lombardo con il nuovo rivendicazionismo del suo partito del Sud rivolto ai flussi di spesa verso il Meridione, i Luca Zaia e tutti gli altri leader regionali che sono saliti sulla scena nazionale sapendo rappresentare al tavolo romano un pezzo d'Italia con tutto il peso della sua diversità.
Forse si dirà che in questo non c'è alcuna novità di rilievo. In fondo abbiamo già conosciuto, nella prima metà degli anni 90, quel "partito dei sindaci" che prometteva di rifondare il patto repubblicano attraverso un nuovo legame tra gli elettori e i buoni amministratori locali. La differenza è invece molto significativa. Perché quello che già allora fu bollato come "partito dei cacicchi" si muoveva dentro contenitori politici di recentissima formazione che, sia sul centro-destra sia sul centro-sinistra, sapevano parlare a tutta l'Italia attraverso una narrativa coerentemente nazionale.
Una capacità che non era tanto legata a dosi maggiori di patriottismo rispetto a quelli che leggiamo oggi nella comunicazione pubblica di Pd e Pdl, quanto alla forza propriamente politica di quei partiti e alla loro facoltà di tenere in pugno l'agenda di governo nazionale.
Nel frattempo, da quegli anni in avanti è accaduto qualcosa. Qualcosa che ha a che fare con il nostro essere una comunità nazionale più debole, ma soprattutto con la sempre maggiore fragilità di partiti nazionali, un tempo nuovi, che riescono a sopravvivere come forze organizzate solo se aderiscono alla conformazione di volta in volta particolare dei loro diversi elettorati regionali.
È il caso del partito democratico, che al tavolo romano rappresenta ormai soltanto il modello sociale concretamente rappresentato dall'Italia centrale e che fuori da quell'area deve affidare le proprie fortune a figure estranee alla propria identità come Vendola o Emma Bonino. Ma è anche il caso del Pdl, che sotto la forza senza eredi della leadership berlusconiana cova una divaricazione crescente tra le sue cordate settentrionali e quelle meridionali.
Evidentemente non può esservi alcuna nostalgia per la forza di partiti che non torneranno per miracolo a rappresentare la nazione nella sua interezza e che si trovano, al contrario, alla fine di un ciclo di vita sorprendentemente breve. Quello che tuttavia non può non essere segnalato è il rischio che lungo questa strada, senza strepiti secessionisti e senza conflitti clamorosi, si affermi una rottura di fatto della nostra unità nazionale.
Quella che si produrrebbe un domani laddove leadership regionali pienamente legittimate dal voto popolare, ma non più contenute all'interno di soggetti politici nazionali sufficientemente autorevoli, potrebbero decidere di non avere più alcuna reverenza per il patto che ancora ci unisce. Sarebbe un esito davvero bizzarro per quel federalismo che in teoria avrebbe dovuto preservare il futuro della nostra nazione.

20 marzo 2010
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