La radiosa Europa del post-Lisbona si risveglia oggi nelle mani di un opaco leader fiammingo e di una baronessa laburista che non è mai stata ministro di Sua Maestà. Con meno travagli del previsto, i 27 hanno deciso di affidare alla strana coppia, Herman Van Rompuy e Catherine Ashton, le due più prestigiose poltrone create dal nuovo Trattato. Sarà il premier uscente del Belgio a stringere la mano a Barack Obama a nome dell'Europa. Sarà la seconda scelta inglese per la carica di commissario Ue al Commercio (già allora sospettata di profilo troppo basso per l'incarico) a offrire il tè a Hillary Clinton.
È una scelta «minimalista». Difficile non condividere la definizione data da Carl Bildt, candidato dal pedigree più nobile, finito con altri illustri ex premier in corsa, da Tony Blair e Massimo D'Alema, sminuzzato nel diabolico tritacarne dei veti incrociati e del bilanciamento tra popolari e socialisti, paesi grandi e piccoli, uomini e donne.
Non mancheranno gli ottimisti pronti a sottolineare che per ricoprire la carica di presidente del Consiglio Ue saranno importanti le doti di oculato mediatore dimostrate da Van Rompuy, nel ricomporre le ingarbugliate dispute tra fiamminghi e valloni, oltre che il suo puntiglio nel ridurre lo smisurato debito pubblico belga ai tempi in cui era ministro del bilancio. O a osservare che la Ashton è andata al di là delle aspettative nell'espletare il delicato ruolo di capo-negoziatore commerciale europeo.
Ma la sensazione è che a vincere sia ancora una volta l'Europa dei meschini particolarismi. Incapace di proiettarsi nel mondo con personalità di rango. Preda degli egoismi di Frau Merkel e Monsieur Sarkozy, che si ritroveranno la scena sgombra per le proprie politiche nazionali, oltre che del declinante Gordon Brown, che incassa una nomina di rango. Un'Europa destinata a rimanere minore, un po' come gli haiku, le poesie brevi di scuola giapponese che Van Rompuy tanto ama.