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TRA WASHINGTON E NEW YORK / Destino Pacifico per gli Usa

di Carlo Bastasin

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20 novembre 2009

Racconta un testimone che una delle decisioni più importanti di John F. Kennedy in materia di commercio mondiale fu presa tirando in aria una moneta da un quarto di dollaro. Tali erano allora il potere e l'arbitrio di Washington sull'economia globale. Nei giorni scorsi, durante la sua visita in Asia, il presidente Obama è stato direttamente ammonito dal leader cinese Hu Jintao per le politiche protezioniste degli Stati Uniti. Il capo della Commissione di regolazione bancaria cinese ha accusato la Federal Reserve di lassismo monetario. La delegazione di Pechino ha messo sotto scrutinio le politiche interne americane, a cominciare dalla riforma sanitaria, per le conseguenze sulla stabilità del dollaro. Una fonte dell'amministrazione si dice stupefatta dalla durezza dei negoziatori cinesi e martedì sera giudicava la situazione scoraggiante.

Gli ultimi giorni sono stati forse il punto di svolta in cui l'America, sbattendo sulla muraglia, ha capito di non essere più la superpotenza globale e di essere entrata in quello che è già stato definito da Fareed Zakaria il «mondo post-americano». Un mondo incerto e imprevedibile, ma pur sempre lo specchio del formidabile sviluppo di tre miliardi di individui che escono dalla povertà nel continente asiatico. Barack Obama incarna perfettamente lo spirito e l'energia di un mondo multietnico. Potrebbe esserne il leader, per l'esempio che trasmette e per i suoi entusiasmanti messaggi di apertura e di coinvolgimento. Più duro il nemico e più lui tende la mano. Ma l'autonomia decisionale di un presidente è spesso sovrastimata. Il suo potere è più dipendente di quanto si creda dal sostegno del Congresso. Le logiche del consenso nazionale sono prevalenti e ancora legate alla mentalità della superpotenza.

Gran parte dei politici americani e dei loro consiglieri sono cresciuti studiando i rapporti di forza globali ai tempi della guerra fredda. L'11 settembre ha accentuato il ruolo della potenza militare su cui si basa ancora la leadership politica americana. In fondo ci sono ancora 120mila soldati americani in Europa e 30mila in Giappone. Solo sette anni fa George W. Bush era riuscito, con argomenti rivelatisi fittizi, a coinvolgere il mondo nell'invasione irachena. Ma dopo aver liberato il paese al costo di centinaia di migliaia di vite, gli americani hanno dovuto scoprire che a firmare il primo contratto petrolifero con il nuovo governo di Baghdad era stata la Chinese National Oil Company.

Nemmeno la crisi finanziaria aveva provocato un riesame delle responsabilità globali americane. Fino all'inizio di settembre a Washington prevaleva ancora la favola che la crisi fosse causata dall'eccesso di risparmio di Cina e Germania. E che sarebbe stato sufficiente il formidabile dinamismo dell'economia perché gli Usa emergessero ancora una volta come l'economia più forte del mondo. Nelle ultime settimane la percezione è completamente cambiata. Un mese fa si è diffuso nelle stanze dei consiglieri economici di Obama il timore del crollo del dollaro, poi sono apparse chiare le conseguenze di lungo termine di un debito estero che continuerà ad aumentare per altri dieci anni, infine sia la Fed sia il Tesoro hanno dovuto riconoscere che le previsioni di crescita sono sempre meno incoraggianti.

Il nodo tra economia ed equilibrio strategico è ancora il commercio mondiale e in particolare il rapporto con la Cina. Durante la campagna elettorale, sia Obama sia Hillary Clinton avevano annunciato di voler rinegoziare gli accordi commerciali per proteggere i lavoratori americani dai messicani e dai canadesi. I cinesi erano il bersaglio finale. Ora anche questa logica da dominus globale è finita. L'aspetto più positivo del viaggio in Asia è infatti l'annuncio della partecipazione americana all'accordo commerciale del Trans-pacific partnership. Per Obama questo ha tre conseguenze: dimostra finalmente di avere una politica commerciale che lo riporta al tavolo dei negoziati globali da cui era assente; evita che la Cina consolidi il proprio potere nazionale costruendo attorno a sé un blocco di paesi asiatici chiusi e pronti a discriminare gli americani; infine apre la strada a un blocco commerciale di dimensioni così grandi da costringere gli europei e gli indiani a rivitalizzare Doha e le istituzioni multilaterali globali.

Nell'autunno del 2011 Obama organizzerà a Honolulu, la città dove è cresciuto, un vertice Pacifico che coronerà la nuova strategia negoziale del presidente e soprattutto il ritorno del baricentro economico mondiale nel Pacifico. Comunque la possiamo giudicare noi europei, si tratta di una svolta rispetto alle tentazioni protezioniste del Congresso. In una delle frasi più belle e vere del suo viaggio asiatico, Obama ha osservato che l'economia non è un gioco a somma zero: «La crescita di un paese non avviene a danno degli altri, ma a beneficio di tutti». Non sono dunque le strategie di guerra a funzionare in un tale quadro negoziale, ma quelle di pace.

  CONTINUA ...»

20 novembre 2009
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