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MERCATI FINANZIARI / Mai più una roulette bancaria

di Marco Onado

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20 Ottobre 2009

Anche i banchieri centrali stanno perdendo la pazienza: giovedì scorso il presidente della Bce Jean-Claude Trichet ha esplicitamente esortato le banche a «tornare alla loro tradizionale funzione di fornire servizi all'economia reale» e le ha accusate di aver deviato verso la «speculazione senza freni e il gioco d'azzardo finanziario». Parole pesanti, che indicano quanto delicata sia la situazione e soprattutto quanto sia difficile il ritorno a condizioni finanziarie normali.
Nello stesso discorso (rivolto alle banche cooperative, la spina dorsale del credito al settore produttivo tedesco) Trichet citava dati confortanti di un sondaggio di luglio da cui non emergerebbero condizioni particolarmente severe di razionamento del credito, almeno a livello dell'intera area dell'euro. Ma il Bollettino della Bce pubblicato nello stesso giorno ci dice che la variazione del credito all'economia è ormai praticamente pari a zero, il che costituisce un "minimo storico" e prevede che la disponibilità di credito alle imprese dovrebbe continuare a diminuire almeno fino alla prima parte del 2010. La situazione di emergenza è quindi lontana dall'essere conclusa.
Il punto centrale del problema è che sia la diagnosi delle cause della crisi finanziaria sia la prognosi sono ormai ragionevolmente condivise, ma i pazienti (cioè le grandi banche globali) si dimostrano riottosi e i medici (cioè le autorità di controllo, ma soprattutto i politici) sembrano ancora divisi almeno per quanto riguarda i tempi della terapia.
La crisi è stata determinata dal fatto che l'innovazione finanziaria (in particolare quella che ha consentito di trasformare trilioni di prestiti in titoli sempre più complessi) è stata usata in modo distorto e opaco, consentendo alle banche di incassare profitti eccezionali in tutti i modi, ma in particolare attraverso un intenso trading speculativo su quei titoli, quasi interamente finanziato a debito. Grazie al sonno dei regolatori (e dei politici) i prezzi dei titoli erano sopravvalutati da una sistematica sottovalutazione del rischio e nella maggior parte delle grandi banche si prendevano posizioni speculative esattamente identiche a quelli degli hedge fund, ma con livelli d'indebitamento anche superiori. Fatalmente, per usare le parole del presidente della Fsa (l'autorità di regolazione britannica) il «casino banking» (nel senso della casa da gioco) ha contaminato l'«utility banking» cioè la parte di servizio dell'economia.
Sarebbe però troppo semplice affermare che le banche oggi non concedono credito al settore produttivo solo perché distratte dalla frenesia speculativa o perché incapaci di ritornare alle forme tradizionali di finanziamento. È abbastanza naturale che questo succeda dove si era ecceduto nelle nuove forme di credito (si pensi al Regno Unito, dove banche come Northern Rock avevano fondato tutta la loro strategia sul modello che poi è fallito) ma in paesi come l'Italia in cui ciò non è avvenuto e comunque ha assunto forme largamente inferiori a quelle di altri paesi, è molto difficile imputare la caduta del credito solo a una perversa volontà delle banche di negare il credito a chi lo merita e non alla maggior cautela richiesta dalla "sana e prudente gestione" solennemente affermata dalla nostra legge bancaria.
La situazione attuale richiede di evitare due scorciatoie opposte, ma con uguali possibili conseguenze negative sui principi essenziali del mercato e dell'autonomia imprenditoriale dei banchieri. La prima è quella della deriva verso una qualche forma di controllo amministrativo del credito, che noi italiani dovremmo essere gli ultimi a rimpiangere perché anche i più giovani sono in grado di vedere quali effetti devastanti ha prodotto. Come ha affermato il governatore della Banca d'Italia Draghi in parlamento, bisogna evitare «interferenze politico-amministrative nelle valutazioni del merito di credito di singoli casi. Il credito è, e deve restare, attività imprenditoriale, basata su un prudente apprezzamento professionale della validità dei progetti aziendali».
La seconda è quella di regole drastiche che impediscano alle banche ordinarie di svolgere attività d'intermediazione in titoli. Sarebbe la riedizione del Glass-Stegall Act di 70 anni fa, ma questa volta applicato a livello mondiale. Un taglio gordiano sulla cui efficacia l'analisi economica è molto scettica e che soprattutto appare assai difficile da realizzare nel momento in cui la securitisation ha reso il rapporto fra banche e mercati finanziari non più di alternativa, ma di complementarietà.
Per realizzare lo stesso obiettivo, si può intervenire con gli strumenti tradizionali della vigilanza prudenziale e aumentare significativamente i requisiti di capitale per i rischi come quelli di mercato e di liquidità collegati all'attività finanziaria in senso stretto. Si può intervenire spostando una parte significativa degli strumenti derivati verso i mercati regolamentati, in modo che il rischio di controparte possa essere immediatamente calcolato e coperto. Insomma, l'attività speculativa non si può eliminare dal mondo finanziario, ma si può controllare e soprattutto si può fare in modo che gli speculatori lavorino fondamentalmente con i soldi propri e non con quelli degli altri.
Negli ultimi 20 anni, i banchieri hanno operato in un mondo in cui gli incentivi erano profondamente distorti. È quell'anomalia strutturale che va corretta, intervenendo soprattutto sulle regole. Altrimenti i moniti come quello di Trichet di chiudere la "casa da gioco" continueranno a cadere nel vuoto. Anche perché egli, come tutti i banchieri centrali che continuano a fornire liquidità a tasso prossimo allo zero, rischia oggi di passare per quello che fornisce le fiches.

20 Ottobre 2009
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