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UN'ERA È FINITA... / Troppe aspettative tradite

di Franco Debenedetti

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20 Ottobre 2009

Dopo l'ultima estate, la fine anticipata del ciclo politico di Berlusconi è parsa diventare una concreta possibilità; è quindi aumentata la tensione a centrare questo obiettivo. Che un ciclo politico così lungo dovesse finire, era scontato. Ma c'è modo e modo. E nel modo in cui la retorica politica sta contribuendo al framing delle particolari condizioni in cui la lunga corsa del Cavaliere verrà a finire, c'è un rischio grosso: corriamo il pericolo di buttar via più di 15 anni della nostra storia.
In questo periodo abbiamo vissuto un cambiamento straordinario di leadership e di geografia politica: un cambiamento di paradigma. Con il famoso discorso di Berlusconi del 26 gennaio 1994 non nasceva solo un nuovo partito, s'instaurava un'altra modalità di rapporto fra politica e cittadino. Cambiavano la politics, non le policies. Con la semplice affermazione che Forza Italia sarebbe stato un partito liberale di massa, cambiava la retorica politica.
Amato aveva già privatizzato il credito e disboscato la governance delle Partecipazioni statali: ora, nella nuova retorica politica, la proprietà pubblica in economia diventa negativa e positiva quella privata, emblematicamente rappresentata dalla televisione. Craxi si era scontrato con i sindacati sulla scala mobile: ora il sindacato diventa l'ostacolo esplicito, e ancor più lo sarebbe diventato dopo la sconfitta subita sulle pensioni. Referendum, leggi sui sindaci, Mattarellum avevano già aperto al bipolarismo; ora si prova a mettere addirittura in Costituzione che i governi non si fanno e disfano in parlamento. Sostenitori della separazione dei giudici dai Pm ce n'erano anche all'interno dei Ds (quorum ego); ora la definizione del rapporto tra potere politico e ordine giudiziario sale ai primissimi posti dell'agenda politica. Ora, per la prima volta, nel nostro vocabolario politico entra il tema della riduzione delle tasse.
Ancor più radicalte il cambiamento nei riferimenti culturali. Lo sdoganamento della destra, l'assunzione del localismo leghista nel governo nazionale potrebbero essere considerati un'ulteriore evoluzione dell'assetto definito alla Costituente. Invece è proprio da quell'assetto che si vogliono prendere le distanze: i suoi residui vengono bollati come azionismo datato, quella retorica viene declassata a ingombrante politically correct. Qui si verifica la frattura che attraversa le classi dirigenti. Dal conflitto d'interesse, alla competizione tra stampa e televisione, al ruolo dei mezzi di comunicazione di massa nella formazione del consenso, al rapporto tra potere economico e politico, tra etica e politica, la frattura si approfondisce sempre più: aldiqua del suo bordo si acquartierano i detentori di valori di correttezza, di probità, di democrazia, della "buona politica". Per loro questi 15 anni sono una parentesi da chiudere e dimenticare: come con il fascismo.
Ma poiché il regime, ad ogni evidenza, non si è instaurato, e oggi è ancor meno credibile che possa instaurarsi, bisognerà cercar di capire, proprio in nome della democrazia, perché questo nuovo paradigma ha trovato la preferenza degli elettori in modo praticamente ininterrotto dal 1994 (fu D'Alema a spiegare la vittoria del '96 con l'abilità nello sfruttare la legge elettorale). Difficile pensare che questo consenso sia ascrivibile alla fascinazione del grande seduttore, o alla saturazione dello spazio di comunicazione. Ridicolo sostenere che tutto questo sia avvenuto perché un signore, temendo per la sua proprietà, pensa bene di entrare in politica. Il che, beninteso, nelle migliori delle ipotesi spiegherebbe le motivazioni dell'eletto: non quelle degli elettori. Incongruo spiegare il successo nel contesto della generalizzata crisi delle sinistre europee, dato che da noi si è verificata con tanto anticipo. Impossibile poi che questo consenso derivi dalla soddisfazione per i risultati, dato che i governi Berlusconi in realtà nulla o quasi hanno fatto per passare dalla retorica politica alle politiche tout court.
Non resta che la spiegazione più semplice: alla maggioranza degli italiani il cambio di paradigma promesso 15 anni fa continua a piacere; le idee liberali, in un paese dove di casa non sono mai state, dopo tutto un po' di strada l'hanno fatta; e la stanchezza dell'Italia per arrangiamenti istituzionali farraginosi e bizantini, che ne frenano la crescita, non si è fatta meno sull'onda del pessimismo circa la possibilità di disfarsene. Sembrano confermarlo alcuni segnali deboli: ad esempio la maggiore competenza e libertà con cui vengono trattati dai giornali i temi economici, fiscali, di giustizia civile e penale, di pubblica amministrazione, di diritti civili. Qualcuno agitava lo spauracchio del grande fratello: invece nascono nuovi giornali d'opposizione, il satellite fa saltare il duopolio televisivo, il web moltiplica la diffusione delle opinioni. Per qualcuno era in pericolo il diritto allo studio: e spunta come un bucaneve un po' di premio al merito.
Forse gli italiani, dopo 15 anni, vogliono avere ancora meno pubblico in economia, scegliere direttamente da chi farsi governare, limitare il potere dei sindacati, tenere al loro posto i Pm, pagare meno tasse. Forse in maggioranza sono diventati insofferenti dei mantra del politically correct, non riconoscono a nessuno il monopolio di etica civile. Che la coalizione cui lo chiedono abbia dimostrato, by and large, di non essere in grado di soddisfare tale domanda politica, e ora persino se ne faccia vanto, non è certo un dettaglio: ma i pregiudizi sono resilienti e gli elettori non vivono solo pensando alla politica, per cui gli effetti del cambio di registro, si vedranno, se si vedranno, soltanto dopo un certo lag temporale. Se così è, non c'è ragione per cui il successo non debba arridere a una nuova leadership politica che garantisca di mantenere quanto si è acquisito come idea di paese normale, e sia credibile nel promettere qualche passo avanti per tradurlo in pratica.
  CONTINUA ...»

20 Ottobre 2009
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