Zhong Changfu ci aspetta al bar del «Jean Georges», lussuoso ristorante francese alla moda. Oltre le finestre si gode lo spettacolo serale dei grattacieli illuminati di Pudong, il quartiere ultramoderno che sta sull'altra sponda del fiume Huangpu. È la cornice giusta per parlare di ricchezza. Zhong, 45 anni, a fianco la moglie che mentre parla lo guarda compiaciuta, possiede quattro fabbriche di componenti per computer che lavorano quasi esclusivamente per brand americani. Master ad Harvard, qui a Shanghai anima anche il club degli ex allievi che ogni tanto si ritrovano a rammentare com'erano, ma soprattutto a parlare di come saranno. Avevamo incontrato Zhong la sera prima con altri imprenditori cinesi dove, complice la fresca pubblicazione della Hurun List, imitazione asiatica dell'esclusiva classifica "by Forbes", quello della ricchezza è un tema che appassiona gli uomini d'affari e li rende – quest'anno più che mai – orgogliosi dei risultati raggiunti. A dispetto della crisi planetaria, i miliardari in dollari sono infatti aumentati da 101 a 130.
Molti sono neofiti , altri habitué. Il magro profilo dei mercati non riduce i patrimoni ma ne esalta la mobilità: per ogni capitalista che piange ce n'è uno che ride.
Il vincitore del 2009 è un esempio: Wang Chuanfu, 43enne proprietario di un impero che spazia dalle auto elettriche alle batterie ricaricabili, l'anno scorso era centoduesimo. Lo seguono due donne: Zhang Yin, regina della carta riciclata, e Yang Huiyan, che guida un gruppo immobiliare. Il salto di Wang Chuanfu, che vale oltre 5 miliardi di dollari, è merito della sua bravura e di Warren Buffett, il finanziere del Nebraska che, comprando azioni della Byd (Build your dreams) Company, ne ha fatto lievitare di cinque volte la capitalizzazione. La loro determinazione non ha eguali, come la spregiudicatezza e la serietà con cui perseguono le ambizioni. Il risultato è che davanti all'interlocutore cui avevo chiesto di spiegare lo strano rapporto tra ideologia e ricchezza – la Cina si proclama ancora un paese comunista – la sensazione è di un imbarazzante scavalcamento a destra.
Zhong Changfu trasforma il tema in un postulato: «L'ideologia è nominale, la ricchezza è reale». Ma una volta non eravate comunisti? «Il termine comunismo è rimasto solo nel logo del partito, come l'effige di Mao sulle banconote». Il logo? Quando parlano, i cinesi come lui usciti dalle business school del continente sembrano dei pubblicitari che vendono agli occidentali l'immagine della loro impareggiabile crescita. «I veri capitalisti siamo noi – spiega con l'aria di chi vuole sbarazzarsi di un luogo comune – non voi che state lì a baloccarvi col mito dell'uguaglianza e dello stato che vi fa da balia. Qui lo stato sostiene solo chi merita, ma guai a prenderti la pecora e buttare via la lana». La metafora significa che lo stato centrale (non le diramazioni periferiche dove regnano collusione e malaffare) va trattato con materna gratitudine. «Nessun imprenditore si sognerebbe, come da voi, di privatizzare gli utili e pubblicizzare le perdite, o peggio di arricchirsi a suo discapito». Altrimenti si finisce come quel fornitore dell'Expo che per 80mila dollari di tubi in acciaio di cattiva qualità si è beccato due anni di carcere.
Alla fine l'affermazione di Zhong è un perfetto rovesciamento della prospettiva storica: «I veri comunisti siete voi occidentali, cittadini di paesi dove i governi danno soldi alle aziende che a loro volta vi finanziano per comprare le loro merci. Questo vi porterà presto a dover fare i conti con un indebitamento insostenibile».
La sicumera del nostro interlocutore forse si giustifica col fatto che in Cina si è passati con stupefacente rapidità dal comunismo (che nominale lo è soltanto da poco) al capitalismo – ora nella sua fase di frenetica efficiente accumulazione – senza un sano bagno di socialdemocrazia, sarebbe bastato anche nella versione tremontiana stile economia sociale di mercato. Per inciso, quando Tremonti verrà qui il mese prossimo a parlare di globalizzazione e spiegare alla scuola del Partito comunista fondamenta e presupposti della sua teoria, nella platea di mercatisti duri e puri si leverà qualche dissenso.
Sarà perché in molti casi lo stato ha agito con loro da buona madre che i cinesi multimiliardari si concedono tutto tranne la pubblica ostentazione. La sobrietà è un imperativo categorico, che saggiamente praticato non impedisce di togliersi ogni sfizio "occidentale". Se prendete i primi dieci della Hurum List non ce n'è uno che si lasci facilmente intervistare, che frema di far vedere al mondo quanto è stato bravo. Orgogliosi sì, esibizionisti proprio no. «Do business and keep silent, fai gli affari e sta zitto», è il credo che professano. E non è più neanche vero che fanno i soldi copiando. Il discorso non vale solo per i loro prodotti ma anche per la teoria economica. «Essendo i principali detentori del debito americano, conosciamo l'economia di quel paese meglio dei professori di Harvard», là dove la scorsa settimana Li Yanchao, il capo organizzativo del Partito comunista, è andato a spiegare perché i cinesi sono usciti dalla crisi prima e meglio di altri. E forse, senza dirlo, a far capire loro come dovrebbero muoversi. Magari qualcuno potrebbe osservare, visto che quasi il 25% dei ricchi censiti nella Harum List sono costruttori, che è facile recitare da primo della classe quando il mattone tira ancora a ritmi forsennati. Ma Zhong non la pensa così. «È tutto frutto di una dura preparazione, qui si studia anche trent'anni per arrivare a guidare un dipartimento di ministero» chiosa. E conclude: «Non c'è dubbio, negli interventi di sostegno siamo stati i più bravi». Poi, siccome siamo arrivati alla fine della cena, chiede il conto. E paga senza alcun trasalimento una cifra che corrisponde a circa quattro mesi di paga di un locale operaio. Il trasalimento è tutto mio, ai suoi occhi un patetico comunista che ancora per poco si culla negli agi di un dignitoso welfare.