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Una bolla impossibile per Fed e Bce

di Wolfgang Münchau

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20 Ottobre 2009

Non abbiamo bisogno di aspettare che il Dow Jones tocchi quota 10mila. È evidente già da un po' che la bolla dei mercati azionari globali sta tornando a gonfiarsi. Apparentemente come nel 2003 e nel 2004, quando cominciarono a gonfiarsi le precedenti bolle (immobiliare, del credito, delle materie prime e delle azioni), coadiuvate dai bassi tassi di interesse e dalla mancanza di inflazione. C'è una grande differenza, però: questa volta la bolla scoppierà più in fretta.
Come facciamo a sapere che è una bolla? I miei indicatori preferiti, per la valutazione del mercato azionario, sono il Cape, che tiene conto del rapporto prezzi/utili corretto in base alla congiuntura, e il Q. Il Cape è stato inventato da Robert Shiller, professore di economia e finanza a Yale, e calcola la media mobile decennale del rapporto prezzi/utili. Il Q calcola la capitalizzazione di mercato divisa per il patrimonio netto. I dati sul Q, un concetto inventato dall'economista James Tobin, sono stati raccolti da Andrew Smithers (Wall Street Revalued: Imperfect Markets and Inept Central Bankers, Wiley 2009). Cape e Q misurano cose diverse, ma quasi sempre giungono alle stesse conclusioni sul mispricing relativo del mercato. A metà settembre, tutti e due hanno segnalato che il mercato azionario Usa era sopravvalutato del 35-40 per cento. Da quel momento, i mercati sono saliti molto di più rispetto alla media mobile degli utili. Potete farvi i conti.
L'unica ragione per questa nuova bolla è il livello estremamente basso dei tassi di interesse nominali, che ha indotto la gente a trasferire gli investimenti su attività rischiose di ogni genere. Perfino i prezzi delle case sono tornati a salire. Non sono mai scesi a livelli coerenti con il rapporto prezzo/affitto e prezzo/reddito di lungo termine, che sono indicatori affidabili della sopravvalutazione o sottovalutazione relativa del mercato immobiliare.
A differenza di cinque anni fa, le banche centrali devono oggi provvedere sia alla stabilità monetaria sia a quella finanziaria. Due obiettivi, come è stato sottolineato, che entrano facilmente in rotta di collisione. In Europa, ad esempio, la Bce in circostanze normali avrebbe già cominciato ad alzare i tassi di interesse. Se non sta facendo nulla è perché vuole evitare di nuocere al sistema bancario europeo, affetto da sottocapitalizzazione cronica, che ancora dipende dalla Bce per la sua sopravvivenza. Lo stesso vale, più o meno, anche altrove.
Anche io credo che nei prossimi 12 mesi non ci sarà nessuna prospettiva di un aumento significativo dell'inflazione, ma le chances aumentano considerevolmente dopo il 2010. Quando la percezione di un'inflazione in crescita sarà tornata in scena, le banche centrali potrebbero essere costrette a passare, in tempi relativamente rapidi (più rapidi rispetto al ciclo precedente) a una politica monetaria più aggressiva. Un breve boom inflazionistico potrebbe essere seguito da un'altra recessione, un'altra crisi del sistema bancario e forse una deflazione. Inflazione e deflazione non vanno visti come scenari alternativi, ma sequenziali. Potremmo andare incontro a un periodo di estrema instabilità dei prezzi, verso l'alto e verso il basso, se le banche centrali perdono il controllo della situazione.
È esattamente quanto previsto dall'economista Hyman Minsky nella sua ipotesi dell'instabilità finanziaria (Stabilising an Unstable Economy). Minsky ipotizzava che un mondo con un grande settore finanziario e un'enfasi eccessiva sulla produzione di beni d'investimento crea instabilità sia sul piano della produzione sia su quello dei prezzi.
Se queste, secondo Minsky, sono le cause profonde dell'instabilità, il meccanismo che porta all'insorgere dell'instabilità è il modo in cui governi e banche centrali reagiscono alle crisi. Lo stato ha strumenti potenti per mettere fine a una recessione, ma le misure che mette in campo creano le condizioni per la fase d'instabilità successiva. Minsky si basò su dati prevalentemente degli anni 70 e dei primi 80, ma la sua teoria descrive ottimamente quel che è successo all'economia globale da allora, specialmente nell'ultimo decennio. Il mondo ha assistito a una proliferazione di bolle finanziarie e instabilità economica estrema, che nessuno dei modelli macroeconomici consolidati può spiegare. Minsky è più o meno tutto quello che abbiamo.
Le sue conclusioni, quanto a misure da adottare, lasciano turbati, specialmente se le confrontiamo con quello che sta succedendo. Nella loro risposta alla crisi, i leader mondiali si sono concentrati sui bonus e altre questioni collaterali irrilevanti. Ma non hanno affrontato il problema delle dimensioni complessive del settore finanziario. Se Minsky ha ragione, dunque, l'instabilità continuerà e peggiorerà.
La nostra situazione attuale può produrre due scenari o una combinazione di essi. Il primo è quello in cui le banche centrali avviano l'exit strategy nel 2010, innescando un'altra caduta dei prezzi degli asset a rischio. Nel Regno Unito, per esempio, un ritorno a una politica monetaria normale implicherà quasi inevitabilmente un'altra caduta del mercato immobiliare, attualmente tenuto in piedi dalle condizioni ultraconvenienti dei mutui.
In alternativa, le banche centrali potrebbero dare priorità alla stabilità finanziaria, invece che alla stabilità dei prezzi, e tenere aperte le paratie monetarie il più a lungo possibile. Una cosa del genere, secondo me, provocherebbe la madre di tutte le crisi finanziarie (un crack del mercato obbligazionario) destinato a essere seguito da depressione e deflazione.
  CONTINUA ...»

20 Ottobre 2009
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