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AGENDA PER LA RIPRESA / Passata la tempesta ma senza far festa

di Alberto Alesina

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20 settembre 2009

Come ha detto Ben Bernanke, presidente della Federal Reserve, gli Stati Uniti sono «quasi sicuramente» fuori dalla recessione. Il dato di agosto sui consumi americani è incoraggiante, così come i dati sulla riduzione delle scorte e sulla ripresa della produzione industriale e del mercato del credito edilizio. Ancor prima di quanto molti prevedevano anche solo sei mesi fa, sembra che le maggiori economie, gli Usa in testa, si stiano riprendendo; le iperboli terrificanti sulla crisi del 1929 e sulla fine del capitalismo anglosassone sono per fortuna un ricordo che, anche se vicino nel tempo, sembra già un po' "passé".
Ma la ripresa, anche se c'e, potrebbe essere debole debole e rimangono scogli sul tragitto della ripresa. Quali?

Il deficit pubblico americano. Dalle politiche di rientro dipenderà la solidità della ripresa. Barack Obama sbaglia a spingere una riforma della sanità che affosserebbe ancor di più la finanza pubblica americana, contribuendo in modo determinante a far proseguire nel tempo quegli squilibri di bilance commerciali che hanno preceduto la crisi.
Il presidente dovrebbe adottare una riforma più realistica che aiuti con sussidi specifici quella parte di americani non assicurata e che non si può permettere i prezzi di mercato delle assicurazioni private. Senza la riforma sanitaria di Obama si parla già di deficit per 10-15 anni negli Stati Uniti a livelli di 2-3% di Pil. Con la riforma si arriverebbe a livelli vicini al 7% secondo calcoli bipartisan. Tutte previsioni alquanto aleatorie, vista l'inevitabile incertezza, ma gli ordini di grandezza sono preoccupanti. Un aumento delle imposte in Usa è pressoché certo, ma un eccesso in questa direzione non farebbe che ostacolare la ripresa. Spostare domanda dal pubblico al privato è necessario per sostenere la ripresa americana in modo duraturo. Purtroppo il più recente discorso di Obama sulla riforma sanitaria e le proposte dei democratici nel Congresso non fanno ben sperare.

I consumi asiatici. La ripresa degli Usa e quindi del resto del mondo sarebbe aiutata da un aumento delle esportazioni, quindi da una riduzione del deficit commerciale che si riflette nel surplus dei paesi asiatici, soprattutto la Cina. A Pechino va chiesto di sostenere la propria domanda aggregata domestica. I cinesi risparmiano molto anche perché hanno un sistema di sicurezza sociale pressoché inesistente. Se il loro governo li assicurasse di più, i cinesi spenderebbero di più in beni di consumo. Ai cinesi va anche chiesto di non ostacolare i movimenti dei tassi di cambio per evitare apprezzamenti della loro moneta contro il dollaro. Tutto ciò favorirebbe un riequilibrio di domanda aggregata fra Cina e Usa.

L'inflazione. I dati più recenti continuano a non destare allarmi, ma non è mai troppo presto per preoccuparsene, scriveva il Financial Times qualche giorno fa, vista l'enorme liquidità immessa nel sistema dalle banche centrali, che ovviamente potranno ritirarla. Ma quale sarà l'effetto sui tassi di interesse? Questi ultimi non potranno che salire nei prossimi mesi.

Il protezionismo. Per fortuna, durante la fase più acuta della crisi non vi sono state guerre tariffarie come quelle che contribuirono a rendere il crack del '29 una catastrofe per l'economia reale. Ma altre forme di "individualismo" di vari stati si sono viste, con la protezione di industrie domestiche (sia finanziarie che non) a scapito di altri paesi. Anche i paesi europei non hanno certo proceduto all'unisono nella risposta alla crisi finanziaria e le istituzioni Ue sono rimaste nell'ombra. Come sempre la retorica europeista si è sgretolata subito nei momenti difficili. Questa settimana gli Usa hanno introdotto una tariffa sugli pneumatici prodotti in Cina, una mossa da condannare con tutte le penali possibili. Speriamo che rimanga un fatto isolato, ma non bisogna mai abbassare la guardia. Da una scintilla anche piccola può nascere un incendio poi difficile da spegnere.

I disoccupati europei. La disoccupazione reagisce dopo la ripresa del Pil, quando le scorte accumulate si riducono a sufficienza. È assai probabile quindi che in Europa continui a crescere nei prossimi mesi. Ma la preoccupazione non è solo questa, ma anche e soprattutto che dopo le recessioni degli anni 70, che alzarono la disoccupazione ai livelli odierni e oltre, quest'ultima rimase alta per più di un decennio. Perché ciò non avvenga le riforme dei mercati del lavoro devono proseguire nella direzione di evitare dicotomie estreme tra contratti a termine e illicenziabilità. Altrimenti rischiamo che la ripresa dell'occupazione avvenga soprattutto con contratti atipici, cioè quelli più flessibili per le imprese.
Insomma, prudenza della politica fiscale americana, compreso un occhio attento ai primi segnali di inflazione, una spinta alla domanda aggregata in Asia, mano pesante per spegnere qualunque accenno di protezionismo e proseguire nelle riforme in Europa che evitino strozzature all'offerta. Di tutto questo si deve parlare al G-20, davanti e dietro le quinte.

aalesina@harvard.edu

20 settembre 2009
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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