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LA MANO VISIBILE / Non mi convince la mossa «calma-bonus»

di Alessandro De Nicola

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20 settembre 2009

Voilà, la soluzione dei mali del sistema finanziario si è finalmente trovata: limitare i bonus dei banchieri ed evitare che il sistema di remunerazione incoraggi l'assunzione di rischi eccessivi. La pensata ha tre caratteristiche: è facile da comprendere, concede maggior potere ai governi ed è popolare. Ora, sarà pur vero, come dice Tremonti, che non possiamo più fidarci degli economisti, ma sostituirli con burocrati e politici non mi sembra una grande trovata.

Naturalmente sarebbe insensato negare che alcune strutture remunerative incentivano a prendere grandi rischi – due esempi tipici sono i bonus per risultati a breve termine e quelli con un minimo garantito (ad esempio: da 1 a 50 milioni di dollari di profitto, bonus minimo di 5 milioni, poi ogni 10 milioni di utili un altro milione. Ovviamente il manager cercherà solo quegli investimenti rischiosi che promettono di portare almeno 60 milioni di profitto, al di sotto, i 5 sono comunque assicurati) - oppure che i più grandi responsabili della crisi fino a poco prima guadagnavano cifre stellari: Fuld di Lehman, 184 milioni di dollari in cinque anni e James Cayne di Bear Sterns 163 milioni.

Il problema da risolvere è chi sia meglio in grado di decidere i salari, questione complessa di cui mi limito ad affrontarne un aspetto. Un difetto del sistema anglo-americano è infatti che i manager decidono, seppur collettivamente e controllati da vari comitati, i loro compensi (in evidente conflitto di interessi), mentre gli azionisti hanno due alternative: se i risultati sono buoni abbozzano e prendono il dividendo, se son cattivi vendono le partecipazioni. Ogni tanto, in caso di truffe o scarsa performance, il consiglio di amministrazione scaccia gli amministratori delegati. Ecco perché vi sono sempre più società (da ultima Microsoft, si veda l'articolo a pagina 21) che introducono negli statuti la clausola say-on-pay, che permette all'assemblea dei soci di dire la sua sulla paga di amministratori e alti dirigenti.

In realtà, tale diritto è già funzionante in quelle corporation che hanno ricevuto i fondi pubblici del programma Tarp e - sorpresa, sorpresa - in 237 casi su 237 gli azionisti hanno approvato le remunerazioni prospettate. Nelle società americane i soci non sono le vedove del Kentucky, ma gli investitori istituzionali, soggetti perfettamente in grado di capire le proposte loro sottoposte. Bisogna ammettere che è stata una prima prova generale, che i broker possono votare e in genere lo fanno a favore del management, ma il risultato è lo stesso eclatante.

Alcune supposizioni le possiamo azzardare. Primo: sapere di dover sottoporre le proprie buste paga all'assemblea ha consigliato moderazione ai manager e man mano che il sistema si affinerà questo sarà ancor più vero. La voce dei soci si rivela perciò utile. Secondo: se quelli che sopportano le conseguenze di un'errata politica retributiva, cioè i proprietari (oltretutto smaliziati) della società, tendono a fidarsi dei criteri scelti dai manager, per quale illuminazione divina dovrebbe uno Zar (così si chiamano) nominato da Obama (o da qualsiasi altro politico nel mondo) e il suo esercito di burocrati pagati dal contribuente capire quali schemi sono rischiosi e quali no, col rischio - questo sì, concreto - di soffocare innovazione e concorrenza? E qual è il livello di retribuzione oltre il quale non si può andare?
Semplice, popolare e gestita dai politici: le tre qualità essenziali di ogni riforma fallimentare.

adenicola@adamsmith.it

20 settembre 2009
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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