Mi incuriosisce il quiz di Gerry Scotti, Chi vuol esser milionario, perché difendo ancora il molto deprecato nozionismo e perché apprendere che Palermo è ad est di Venezia non serve a niente, e proprio questo è il bello. Poi ci sono le sorprese. Qualche giorno fa, per esempio, ecco una giovane concorrente che alla seconda domanda mostra d'ignorare quale sia, in volgare, il colore di un occhio "ceruleo". Niente di strano, si dirà. Peccato che la signora sia una poliglotta e che di mestiere faccia la traduttrice, specializzata nella lingua spagnola. È una professionista delle parole, insomma.
Ma è proprio vero che gli italiani (e perfino gli specialisti) sono diventati ignorantissimi? Secondo Tullio De Mauro il nostro analfabetismo di ritorno è addirittura mostruoso.
Per quel che riguarda soltanto il deficit di lettura/scrittura, proviamo a ricostruire almeno un filone del processo. Nel secondo dopoguerra, le nostre moltitudini, prevalentemente agricole e scarsamente alfabetizzate, saltarono la fase Gutenberg e passarono direttamente alla fruizione delle immagini. Ben prima del boom catodico, gli italiani incominciarono a "guardare le figure", innescando un consumo delle riviste illustrate e dei fumetti (disegnati o fotografici) da primato editoriale. Questo spiega, fra l'altro, l'assenza dei cosiddetti quotidiani popolari in Italia. Nello stesso periodo, parecchi ragazzini imparavano nuovi linguaggi e nuovi codici. Gli albi di Topolino, per esempio, esibivano allusioni che solo gli iniziati potevano decifrare, e onomatopee anglofone come sigh (sospiro) e sob (singhiozzo) che non era necessario tradurre.
Oggi, dopo l'invasione televisiva (che da noi, non per caso, è più imponente che altrove) le immagini appannano le parole scritte e le stesse parole sono globalizzate dai telefilm esotici: vaste mandrie di scapoli nostrani ritengono che ai matrimoni sia necessario dire «Lo voglio», e che il prete pronunci la formula «Finché morte non vi separi». Infine, ecco internet. Per gli aiuti da casa, i concorrenti di Gerry Scotti non scelgono i sapienti, ma le persone svelte a interrogare Google. Conoscere molte parole, ormai, è un ornamento, non una necessità.
Forse incombe il tramonto del vetusto eloquio, ma nascono e pullulano molti linguaggi nuovi. Non soltanto le abbreviazioni degli sms e gli emoticon, ma soprattutto la koiné angloinformatica che consente il rapido accesso agli strumenti collettivi della conoscenza, e distribuisce opportunità che rendono futile la memoria e obsoleto lo sguardo ceruleo degli arnesi classici. Non trionfa l'afasia, ma irrompono geroglifici diversi, comunicazioni non verbali, gerghi di gruppo e di clan, slang che partono dai Gormiti e dai cartoon e che frullano accanto alle playstation, nelle comunità di Facebook e di Twitter (Twabolous!), negli slogan pubblicitari, nelle sincopi dei rap, nei graffiti e perfino nella lingua dei tatuaggi. Lo zapping, poi, frantuma le unità di tempo, di luogo e di percezione, mentre i mille strumenti tascabili tipo iPhone o iPad consentono scambi veloci di messaggi, d'immagini e di letture.
Che ne sarà della parola cartacea e cruscante? Certo: si sta prosciugando inesorabilmente. Ma senza fretta, se è vero che qualche autore italiano vende ancora milioni di libri. Nel prossimo secolo, forse, le delizie tattili e fruscianti delle nutrienti letture abiteranno nelle nicchie per intenditori che oggi accolgono i madrigali di Frescobaldi. Ne riparleremo (o lo vedremo) fra cent'anni.