«Aprile è il mese più crudele» scriveva T.S. Eliot, il poeta americano che volle vivere da europeo: e certamente aprile 2010 sarà un mese tosto per gli europei che vivono in Grecia. Secondo le stime dei mercati Atene dovrebbe raccogliere fra 3 e 5 miliardi di euro entro la prossima settimana. Ed è solo l'inizio: entro aprile crudele ne serviranno altri 20 e nel 2010 fino a 53, pari al 5% del Pil greco. Un'impresa ciclopica.

Che è successo all'Europa? Solo nel 2003 lo studioso Charles Kupchan scriveva di «Fine dell'era americana» e calcolava l'ascesa dell'euro. Il ministro degli esteri tedesco Fischer prometteva «l'euro sarà un progetto politico», e Joseph Nye contrapponeva il «soft power» dell'Unione capace di espandere democrazia nelle vecchie colonie dell'Urss al potere militare di Bush incapace di creare consenso. E ora?
Ora le difficoltà seguite alla grande crisi finanziaria mettono alla prova, non solo l'economia e l'industria del vecchio continente, ma soprattutto la sua volontà di essere superpotenza. Ne abbiamo davvero voglia? Siamo disposti noi europei ad assumerci le responsabilità e i sacrifici necessari a un leader mondiale?

Nella sua monumentale Storia della guerra, purtroppo non disponibile in Italia, Hans Delbrück parla dell'oscuro istinto che portava i romani ogni primavera fuori dai confini, per governare, per affermarsi. Esiste ancora, tradotto sia pur nel «soffice potere» di Nye?

La reazione dei governi europei alla crisi, ognun per sé, il fastidio con cui è stato liquidato come una scartoffia burocratica il progetto di Lisbona, la mediocrità che ha selezionato al vertice dell'Unione Van Rompuy e la baronessa Ashton lasciano dubitare che questo desiderio di comune leadership ci sia. Molti si illudono ora di poter salvare il progetto euro senza questa forza, ma è un errore: l'euro, sfida e successo storico, fiorirà solo con un progetto politico dietro.
Il caso Grecia è illuminante del dilemma europeo 2010. Ieri sul Corriere della Sera Lorenzo Bini Smaghi, membro italiano del Comitato esecutivo della Banca centrale europea, sosteneva che per salvare la Grecia «non serve il Fondo monetario. Serve più unione politica». Giusto, ma malgrado l'orgoglio della bandiera blu a stelle d'oro, oggi ottenere più unione politica europea è tosta come persuadere un governo a tagliare la spesa pubblica. È come se avessimo perduto la voglia di essere europei. Sette francesi su dieci rimpiangono il franco dei tempi del commissario Maigret. I tedeschi, inventori dello stato assistenziale con Bismarck, il cancelliere di ferro, non hanno voglia di pagare per gli anni in cui i greci sono andati in pensione all'età in cui Odisseo tornava a casa, hanno assunto impiegati a casaccio, evaso le tasse a ritmi italiani («una faccia una razza» dice il proverbio no?) e aumentato il debito a livelli ciclopici. Il vicecancelliere Guido Westerwelle ha vinto un record del 15% dei voti con i suoi liberali del Fdp promettendo riforma del welfare, ma adesso che si tratta di limare Hartz IV e il welfare che diffonde sui cittadini, i democristiani della Cdu della cancelliera Merkel non hanno voglia di diventare Reagan. «Perché dobbiamo chiedere sacrifici a lavoratori tedeschi che tirano avanti oltre i 60 anni per pagare la pensione ai greci che han lasciato il lavoro a 52?» è il grido di guerra a Berlino. Westerwelle morde il freno e parla dell'Europa come di un continente con un'aria da «caduta dell'impero romano».

Prima di precipitarvi a rileggere il vostro Gibbon sulla fine della gloria di Roma aspettate. Son giorni di grandi esagerazioni, lo storico Niall Ferguson prevede che Washington sarà la prossima Atene e giustamente il grande Martin Wolf gli ulula contro. Scontate però il rinnovo degli inventari, i diversi cicli economici, i tempi di entrata nella crisi - osserva compiaciuto Gerald Seib sul Wall Street Journal - e di fatto gli Usa crescono del 5,7% e l'Ue dello 0,4 per cento. «L'Europa cresce troppo piano» mastica su Repubblica il saggio Peppino Turani. E gli stress test sulle banche Usa reduci dalla grande abbuffata pre-crisi sembrano non peggiori ormai di quelli europei. Seib conclude come Bini Smaghi: serve più Unione. L'avremo?

No. Tommaso Padoa-Schioppa, ex ministro dell'economia nel governo Prodi II, osserva con sagacia sul Financial Times che quella che a molti è apparsa cautela dell'Europa, della Germania e della Francia nasconde invece una diplomatica ambiguità che, non permettendo ai pescecani della speculazione di individuare le mosse monetarie, evita «di infiammare troppo facilmente la pubblica opinione, i sindacati, i partiti rivali e i patriottismi». Come padre dell'euro alla Bce, Padoa-Schioppa sa dei pericoli di cui parla. Eppure proprio questo dovere sempre agire senza coinvolgere i cittadini, radice del fallimento della Costituzione europea, rende il Nobel Paul Krugman scettico sul nostro futuro: finché l'euro sarà governato da un pugno di tecnocrati, annota sul New York Times, il suo passo sarà corto.

C'è una via d'uscita? I pragmatici, come l'Economist, propongono di far intervenire ad Atene il Fmi (i suoi tecnici stanno arrivando a frotte), gli scettici, come il nostro Roberto Perotti e Otmar Issing, non si stracciano le vesti davanti a una Grecia in caduta. Ma è Luigi Spaventa che, per ultimo nella lettera che pubblichiamo in questa pagina, taglia corto: non c'è uscita razionale dall'euro, lavorare insieme è un obbligo per tutti.

Wolf suggerisce ai tedeschi, che dall'euro hanno avuto non pochi benefici, per esempio vedere gli altri paesi europei non poter più ricorrere a furbesche svalutazioni per incoraggiare l'export: «per rilanciare la Grecia comprino feta».

È possibile che, con un collage di austerità ateniese e riluttante collaborazione dell'Unione, la crisi greca possa non esplodere. Certo la spada di Damocle dei 53 miliardi da raccogliere sarà su tutti i cittadini dell'Ue almeno per tutto l'anno. E poi? Vogliamo restare un club di anziani litigiosi che si disputa il bilancio? Non sognavamo il sorpasso tecnologico sugli Usa solo pochi anni fa? I banchieri, gli economisti, i politici, i tecnocrati diranno la loro, e da Atene al resto del vecchio continente ce ne sono falangi di brillanti e colti. Alla fine però la decisione sta nel cuore dell'Europa, tra la gente, nell'opinione pubblica, come in ogni democrazia viva. Se non c'è più sogno comune, se non ci sono interessi comuni, se l'euro non diventa, a piccoli, magari piccolissimi passi, il progetto politico che sognavamo, presto le stelle della nostra bandiera staranno a guardare una diaspora mesta o uno status quo melanconico.