È appena il caso di ricordare che la legge sul «processo breve» (o sulla «ragionevole durata del processo», come preferisce dire la maggioranza) non è ancora definitiva. Dopo il Senato, il passaggio alla Camera non sarà una formalità. È vero che il centrodestra, in materia, sa di avere dalla sua i numeri e non teme trabocchetti parlamentari. Tuttavia alcuni problemi di fondo sono usciti irrisolti da Palazzo Madama.
Il principale riguarda il sospetto di incostituzionalità che al momento molti nutrono. Berlusconi ostenta sicurezza su questo terreno, ma in realtà è consapevole di camminare lungo un sentiero stretto. Per cui in pubblico, a chi lo interroga sul punto, risponde un po' evasivo: «Non lo so, ma non credo che sia incostituzionale». Al tempo stesso ha provveduto a far smentire certe frasi che Repubblica ieri gli attribuiva, in cui si manifestava la certezza che Napolitano non esiterà a firmare il testo (s'intende, dopo il «sì» della Camera).
La verità è che la nave del «processo breve» non è ancora arrivata in porto. È noto che il presidente della Camera condivide le preoccupazioni su alcuni aspetti della legge e ci si attende che nelle prossime settimane – tra la fine di febbraio e i primi di marzo – si adopererà per migliorarla. Un esempio, il più evidente: alcune incongruenze della cosiddetta «norma transitoria» sembrano palesemente incostituzionali, anche se il centrodestra per ora lo nega, e si prestano a un'urgente correzione. Inoltre la Camera dovrà valutare le conseguenze della nuova norma sull'amministrazione della giustizia: andiamo incontro a uno «scempio», come sostengono con accenti diversi Pd e Udc, oltre al partito dipietrista? Ovvero avremo un numero minimo di prescrizioni, come afferma il Pdl?
In ogni caso, prima del passaggio a Montecitorio, è prematuro fare riferimento alle intenzioni del Quirinale, in un senso o nell'altro. Lo stesso presidente del Consiglio sa che gli conviene tenere in queste settimane un profilo rispettoso e cauto nei riguardi del Capo dello Stato, in attesa degli eventi. È anche un po' presto per capire quale sarà il destino delle riforme costituzionali, una volta definito – anche con il «legittimo impedimento» – il salvacondotto giudiziario di Berlusconi.
Sappiamo che il gruppo dirigente del Pd, da Bersani a D'Alema, è favorevole a discutere con il centrodestra un certo numero di riforme della Costituzione. Il «processo breve» certo non migliora l'atmosfera parlamentare, ma era previsto: non è sufficiente, in sé, a bloccare il dialogo. Sappiamo anche che all'interno di questo «confronto» potrà trovare posto il ripristino di una forma di immunità per le alte cariche istituzionali. Ma dovrà essere un tassello all'interno di una revisione generale e condivisa degli assetti costituzionali. Un'operazione complessa, in cui tutti i protagonisti, dal centrodestra al centrosinistra, dovranno ottenere qualcosa e sentirsi parte, su un piede di pari dignità, della riscrittura costituzionale.
Dato il clima e i precedenti, lo scetticismo è normale. In ogni caso, occorre attendere il voto regionale. Il vertice del Pd non potrà uscirne troppo indebolito: discutere di riforme con Berlusconi, compresa la riforma della giustizia, richiede quanto meno un gruppo molto determinato e molto stabile sul piano interno. Per cui si comincerà a vedere già domenica prossima, in Puglia, quanto sia solido questo vertice.