È senza dubbio doveroso garantire una durata ragionevole del processo perché troppo spesso in Italia l'infinito protrarsi dei procedimenti si traduce in una condanna preventiva dell'imputato; è doveroso perché le pronunce di condanna della Corte dei diritti dell'uomo di Strasburgo nei confronti dell'Italia sono numerose; è doveroso, infine, perché il principio della ragionevole durata del processo è affermato dalla Costituzione.
È tuttavia legittimo chiedersi se il disegno di legge approvato ieri al Senato sia davvero lo strumento migliore per affermare questa esigenza. Fissare un termine perentorio per ogni grado di giudizio significa inserire nell'ordinamento qualcosa di più del principio della ragionevole durata. E, davanti a un sistema che resta sotto tutti gli altri aspetti immutato, rischia di provocare un ingiustificato e generalizzato effetto ghigliottina sui processi. Non mancano i dubbi, poi, su una disciplina transitoria concepita in modo disomogeneo rispetto alla norma a regime e applicabile a taluni processi e non ad altri. Sono questioni su cui la Camera farà un'ulteriore riflessione. Non mancherà infine la voce di saggezza del Quirinale: e nessuno si illuderà di influenzare il presidente Napolitano.
La giustizia italiana, e chi l'amministra, a partire dai magistrati, non può nascondere la testa sotto la sabbia. L'irragionevole durata del processo è un grave problema. A testimoniarlo, ancora una volta, i dati forniti ieri in Parlamento dal ministro Angelino Alfano. I processi civili che aspettano una sentenza sono aumentati, quelli penali sono diminuiti solo di poco. Ottanta milioni di euro sono spesi ogni anno per dichiarare prescritti 170mila processi. La conseguenza è l'aumento della durata dei procedimenti con la crescita delle richieste di risarcimento dei cittadini per i danni subiti.
Alcune misure, come un migliore assetto delle circoscrizioni giudiziarie, nell'Italia dei mille tribunali oltre che campanili, sarebbero senz'altro di aiuto. E il legislatore può e deve fare molto per migliorare l'efficienza del sistema. Anche la magistratura è chiamata a fare la sua parte. Accelerando, per esempio, quei criteri di misurazione della produttività di uffici e singoli magistrati, su cui il Csm sta lavorando da tempo. Oppure accettando che anche lo stesso Csm, di cui va conservata autonomia e indipendenza, sia sempre meno un organismo di bilanciamento correntizio e di autoconservazione diventando invece sempre più un motore di cambiamento.
Pesa sull'intera vicenda il cortocircuito tra il destino politico del premier Silvio Berlusconi e il suo lungo iter giudiziario. Berlusconi lamenta una persecuzione, i magistrati rivendicano il diritto a processarlo, i partigiani politici si dividono. Sarebbe grave per tutti che la tattica politica del premier e le resistenze ideologiche dei suoi avversari rendessero infine impossibile l'indispensabile e non più rinviabile riforma della giustizia.