Sarà rimasto deluso quel militante del Pdl che viveva l'inizio della manifestazione di Roma convinto che avrebbe segnato il giorno del «nuovo predellino». Ossia la resa dei conti interna e la nascita del super-partito del presidente, contro tutto e tutti. Non è andata così e bisogna aggiungere: per fortuna. A San Giovanni abbiamo visto solo un grande comizio elettorale, affollato e un po' scomposto, ma niente di diverso. Un comizio giocato dal premier, qui in veste di capo del Pdl, sugli argomenti tipici e ben noti del suo repertorio: gli uomini «del fare» in eterna concorrenza con le sinistre e i magistrati che limitano la libertà e la democrazia.
Speriamo che ora non si esageri con lo stucchevole confronto fra le piazze. Come era prevedibile, il centrodestra ha riempito la sua, forse più di quanto aveva fatto il centrosinistra qualche giorno fa. L'interrogativo riguarda semmai l'utilità di tali manifestazioni, idonee a convincere chi è già convinto e a lasciare prigioniero dei suoi dubbi chi è incerto. Una piazza contro l'altra è magari inevitabile alla vigilia delle elezioni, ma non promette niente di buono in un paese che vive da tempo una campagna elettorale permanente.
Ecco perché erano lecite molte riserve sull'opportunità che il capo del governo in prima persona parlasse dal palco al suo partito. Chi guida un esecutivo ha responsabilità istituzionali che mal si conciliano, in una democrazia rappresentativa, con i toni piazzaioli. Ma Berlusconi non coglie questa distinzione e infatti non solo lui, bensì l'intero governo e l'alleato Bossi erano schierati accanto al leader. Unico assente, com'era scontato, il presidente della Camera.
D'altra parte è evidente che il presidente del Consiglio avverte tutto il peso di questo passaggio elettorale e secondo il suo temperamento punta di nuovo su se stesso. Come ha fatto sempre senza eccezioni in questi sedici anni. Allora la critica che gli si può muovere, al di là dell'opportunità di andare in piazza, tocca due punti cruciali. Primo, la ripetitività di slogan, polemiche e proposte: identici anche nelle sfumature dopo tanti anni (e infatti Berlusconi dice: «La sinistra di oggi è la stessa del '94»). Secondo, la sostanziale impossibilità di riannodare qualche filo all'indomani del voto, quando ci saranno da sgombrare le macerie di una campagna così sterile (per responsabilità che non coinvolgono solo la maggioranza).
La ripetizione degli slogan nasce dal desiderio di Berlusconi di rinnovare i successi del passato con le stesse ricette. Negli anni scorsi ha avuto ragione, ora vedremo. Ma più seria è la questione che investe il «che fare» dopo il 29 marzo. Pensare che le ferite di queste settimane, da Trani alla Rai, siano solo una parentesi, è quanto meno ottimistico. Non a caso il capo dello Stato ha posto proprio il problema di quale confronto sarà possibile in Parlamento e nel paese.
Ne deriva che l'enfasi con cui il presidente del Consiglio ha annunciato per l'ennesima volta un programma di riforme radicali – dalla giustizia al presidenzialismo – lascia perplessi. Da un lato, è legittimo chiedersi perché la maggioranza non ha usato in questi anni la sua notevole forza politica per varare alcune di tali riforme. Cosa mai cambierà con elezioni che riguardano i consigli regionali e non il quadro nazionale? Dall'altro, è chiaro che il «presidenzialismo» in queste condizioni è irrealistico: tanto da rendere impraticabile, se preso alla lettera, qualsiasi confronto con l'opposizione.