Col procedere dei mesi, anche in Italia si fa strada il timore che la via d'uscita dalla crisi - lenta, faticosa e accidentata come si profila - non intersechi la crescita dell'occupazione. Le ultime rilevazioni sull'andamento dell'economia reale colgono sintomi di miglioramento all'interno di alcune realtà italiane, senza però preludere a una sensibile ripresa dell'occupazione.
È il rischio di una "sindrome americana" quella che si affaccia oggi all'attenzione di molti operatori e osservatori, con una ripresa che non ha né la portata né la capacità di riflettersi positivamente sull'occupazione.
Negli Usa se ne è tornato a parlare non appena sono usciti i dati sull'andamento del mercato del lavoro nel febbraio scorso: ancora una volta si è dovuto prendere atto che l'emorragia occupazionale non si arresta.
Da oltre due anni ormai i posti di lavoro sono in contrazione nell'economia americana: il mese passato ne sono stati persi altri 36mila. Così, mentre le previsioni per l'anno in corso stimano una crescita del Pil intorno al 3%, l'indice di disoccupazione continua a sfiorare il 10 per cento.
Due le ipotesi avanzate dall'Economist (13 marzo) per rendere conto di questa anomalia. O la ripresa non è robusta come sembra nemmeno negli Stati Uniti e i dati del Pil mascherano una fragilità più grave di un sistema economico non ancora al riparo dalle ripercussioni della crisi; o la ripresa è trainata da incrementi di produttività riconducibili a una forte ricerca di efficienza da parte delle imprese.
Secondo le rilevazioni, la produttività starebbe crescendo negli ultimi mesi a un ritmo del 7% o anche superiore: livelli quasi da record e da salutare in modo certamente positivo, se si accompagnassero a un miglioramento del mercato del lavoro.
Ma in questo momento non è così, perché siamo ancora al punto in cui le imprese operano per il loro rilancio ristrutturandosi e facendo efficienza, azioni che semmai tendono a contrarre ulteriormente il numero degli occupati, invece di farlo salire.
In Italia, dove la crescita si mantiene ben distante dalle aspettative Usa, è probabile che ci si debba preparare a tempi difficili sul fronte dell'occupazione. Non soltanto anche perché da noi le imprese saranno spinte a battere ulteriormente la strada della compressione dei costi e dei recuperi di efficienza, ma perché l'impulso a ristrutturare ha investito gli ambiti che in passato avevano sorretto l'occupazione.
Quando l'industria aveva attuato investimenti a risparmio di lavoro, era stato il variegato arcipelago del terziario a compensarne gli effetti occupazionali. Ora invece sono anche le realtà terziarie a doversi misurare con politiche che puntano al recupero dell'efficienza e della produttività.
A comprendere questo nodo aiuta il rapporto appena curato dal Censis sul terziario (Il terziario è un'industria?), che sottolinea il carattere nuovo e cruciale del passaggio affrontato dal settore più capace di creare e di sostenere i livelli dell'occupazione.
Fra il 1993 e il 2008 sono stati oltre 3 milioni i posti di lavoro attivati nel sistema dei servizi, che oggi raggruppa tra i 15 e i 16 milioni di lavoratori. Contrariamente a quanto spesso si pensa quando si identifica nel terziario il regno degli autonomi, la grandissima maggioranza di queste nuove occupazioni rientra nel lavoro dipendente (2 milioni 787 mila). Nello stesso periodo, l'industria ha perso 72mila posti di lavoro e l'agricoltura 468mila.
Ma con la crisi è venuta meno la "spinta propulsiva del terziario italiano". Il mondo del mercato immobiliare così come, ancora prima, quello della new economy, hanno cessato di attrarre lavoratori. Il pubblico impiego è bloccato dai vincoli di bilancio e dalle esigenze di contenimento della spesa pubblica. Lo stesso universo dei servizi alle imprese, che ruota attorno alle attività di consulenza, di ricerca, di comunicazione e di marketing e che il Censis chiama "terziario di mercato", sta scontando un'inevitabile battuta d'arresto.
La conseguenza è che nei primi tre trimestri del 2009 l'occupazione terziaria è diminuita dello 0,8% rispetto al periodo analogo dell'anno precedente, rinfocolando i dubbi sulla sua tenuta durante una crisi lunga e complicata come l'attuale.
Tutto ciò suona come un campanello d'allarme per le prospettive a breve dell'occupazione. Il peso dei lavoratori non qualificati sul totale del terziario risulta troppo alto (10,2%), in specie se si considera che è quello cresciuto di più negli ultimi anni.
Al contrario, il numero dei lavoratori altamente specializzati appare contenuto (sono 79mila i nuovi assunti fra il 2004 e il 2009 che appartengono a questo gruppo, contro i 233mila non qualificati). Poiché la crisi ha sollecitato processi di razionalizzazione, i riflessi negativi minacciano di essere gravi e non di breve durata.
La società italiana deve dunque attrezzarsi per gestire una transizione occupazionale complessa, in grado di costituire di per sé una remora ulteriore al rilancio economico.