Il rapporto con la tradizione: Francesco Garofalo arriva a trattare e a risolvere, a modo suo, la questione che è davvero centrale in Italia quando si parla di un monumento ai caduti come quello proposto dal Sole 24 Ore per le missioni internazionali di pace. Le persone comuni, i politici, gli amministratori pubblici preferiscono spesso sentirsi rassicurati da oggetti e simboli di commemorazione collettiva già visti.

L'architetto romano, direttore del Padiglione italiano alla Biennale di Venezia 2008 e neodirettore del Festival dell'architettura di Roma, parte da un punto opposto: la sparizione del canone. «Per il monumento ai caduti - dice Garofalo - come per le chiese, assistiamo alla sparizione del complesso di regole e liturgie che sovrintendevano alla progettazione di un genere». Nessuna indulgenza, però, ad atteggiamenti modernistici di stravolgimento di quelle tipologie. «Proprio perché il canone non c'è più - spiega Garofalo - bisogna evitare qualunque eccesso di personalizzazione del lavoro dell'architetto e partire invece da un archetipo per reinterpretarlo, a quel punto sì, con occhi contemporanei». La tradizione è in crisi: riscrivere, sovrascrivere, rielaborare, quindi superare la tradizione partendo da quell'identità.

Questo percorso spiega il lavoro che lo studio Garofalo Miura Architetti ha fatto per rispondere all'iniziativa del monumento ai caduti di pace. Ha preso un monumento ai caduti già esistente a Roma, al Gianicolo: un impluvio, un tetto sospeso su dei pilastri in marmo e traforato. Lo ha reinterpretato. «È un edificio disegnato con un banale linguaggio degli anni 30 - dice Garofalo - ma l'ho scelto perché m'interessava lo schema del recinto aperto, uno spazio appena vagamente definito, non sovraccaricato di caratteri scultorei, non chiuso e da sorvegliare. Un luogo essenziale che possa accogliere usi diversi. Anche sdraiarsi lì sotto, se si ha voglia». I nomi dei caduti: è il minimo che si possa incidere lì.

Garofalo ha seguito con attenzione le puntate precedenti del lavoro del Sole 24 Ore e sa bene che cosa non vuole fare. Punto primo: è necessaria una «spersonalizzazione» di questo lavoro. «Quando arrivi alla Farnesina e vedi la sfera di Pomodoro, non ti chiedi cos'è, vedi solo che è di Pomodoro. Non deve essere il monumento di Garofalo o di Frank Gehry o, peggio, di Libeskind. Non dev'essere un'invenzione». Punto secondo: se sul monumento scriviamo i nomi dei caduti, le loro storie, altre storie, dobbiamo evitare edifici che, per quanto interessanti, possano spegnersi durante un black out. Riferimento al progetto Scape: il monumento deve essere duraturo e rispondere a esigenze pratiche. Punto terzo: il rapporto con la tradizione, appunto. «Garutti ha preso la tradizione e l'ha interpretata con una stele in maniera integrale. Lo rispetto, ma non è la mia posizione». La sparizione del canone con la modernità «ha prodotto una serie di tentativi maldestri e stravaganze, ma anche un piccolo nucleo di capolavori. Questo non può indurci per reazione a coltivare retorica e rassicurazioni».

Arrivano da Roma anche altre due proposte sul memoriale. Quella dei quarantenni di Ian+ (Carmelo Baglivo e Luca Galofaro) si muove tra recinti vetrati e propone un percorso sospeso e affacciato su un parco, immerso nella campagna romana. Franco Purini, professore "storico" della Sapienza e maestro di almeno due generazioni di architetti romani, lo vede invece in un luogo di grande attraversamento, nell'arco sud-est del raccordo anulare tra il Laurentino e Fiumicino in modo che il monumento «sia visto da lontano e apprezzato da vicino»: due lastre in calcestruzzo, bianche, collegate da una composizione di elementi rossi.

Ian+ ha scelto di riqualificare un'area di estrema periferia senza identità con un grande parco che potrà essere usato e vissuto nel quotidiano. Giardini sonori, spazi museali per divulgare il senso di un memoriale per la pace, ma anche aree attrezzate per il tempo libero. In questo progetto la vita quotidiana sopraffà la memoria: ricordare, commemorare è l'occasione per offrire alla comunità un luogo da vivere, per costruire relazioni e scambi tra individui. «Non un memoriale ma un mausoleo – precisano i due architetti - un luogo definito da una serie di recinti che s'integrano con il paesaggio naturale».

Per Purini «quando si vuole ricordare una tragedia nazionale, in questo caso la morte di alcuni soldati italiani in missione a Kabul, è necessario adottare un linguaggio semplice ed essenziale, che non si risolva però in una proposta talmente minimalista da diventare invisibile». Al contrario, sarà capace di offrirsi alla città «un oggetto di rango metropolitano, come un forte segno rappresentativo per parlare di ciò che il sacrificio dei giovani militari dovrebbe produrre, ovvero la pace». I due muri bianchi di dodici metri di lato uniti e al contempo distanziati da una coppia di travi dipinte di rosso, che s'incrociano individuando un punto nello spazio, centro ideale della composizione. Distanti tre metri, le lastre individuano un percorso che inquadra l'orizzonte. «La luce e le ombre – spiega Purini - raccontano a loro modo ciò che è successo, introducendo alla speranza. I nomi dei caduti sono scritti sul pavimento, in modo da guardare il cielo». Niente retorica, quindi, i nomi possono essere anche calpestati. Importante è che ci siano.

Se Purini, come ha fatto Daniel Libeskind con il suo Requiem in stone, ripropone il tema del muro, Ian+ racconta il suo progetto attraverso il concetto di recinto «che isola intere aree, svuotandole, eliminando il superfluo, chiudendo ogni accesso e impedendo qualsiasi uso del suolo». L'atto di recintare – spiegano i due 40enni - pone «un limite per proteggere uno spazio nello spazio che sarà aperto solo nella giornata della memoria, il 12 novembre