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TURBOLENZE FINANZIARIE / Chi salvare insieme alle banche

di Lucian Bebchuk *

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21 Ottobre 2009

Quando e in che modo le autorità devono intervenire per salvare gli istituti di credito? In passato, i salvataggi pubblici normalmente proteggevano tutti quelli, azionisti a parte, che contribuivano al capitale di una banca salvata. Spesso gli azionisti dovevano addossarsi le perdite, o addirittura venivano azzerati, ma generalmente, con l'iniezione di soldi pubblici, gli obbligazionisti si salvavano.
Per esempio, gli obbligazionisti sono usciti incolumi dal salvataggio dell'Aig, da quello della Bank of America, da quello di Citigroup e da quello di Fannie Mae, mentre gli azionisti di queste società hanno subito pesanti perdite. Lo stesso è successo nei salvataggi di banche britanniche, dell'Europa continentale e di altri paesi.
Un governo può decidere di salvare una banca e offrire protezione ai suoi creditori per due ragioni. La prima riguarda i correntisti o altri creditori liberi di ritirare, con breve preavviso, i propri capitali: una protezione pubblica può rivelarsi necessaria per prevenire inefficienti "assalti agli sportelli", che potrebbero innescare fenomeni analoghi anche in altre banche. La seconda è che la maggior parte dei piccoli creditori è non-adjusting, nel senso che non è in grado di monitorare e studiare la situazione dell'istituto di credito nel momento in cui accetta di entrare in affari con esso. Per mettere i piccoli creditori nelle condizioni di utilizzare il sistema finanziario, potrebbe essere efficiente per il governo garantire (esplicitamente o implicitamente) i loro crediti.
Queste considerazioni forniscono le ragioni di fondo per garantire una piena protezione ai correntisti e agli altri creditori a essi affini, quando si procede al salvataggio di un istituto finanziario, ma non giustifica l'estensione della protezione anche agli obbligazionisti.
A differenza dei correntisti, gli obbligazionisti generalmente non sono liberi di ritirare il proprio capitale con breve preavviso. Vengono liquidati in un momento specificato dal contratto, che magari è lontano anni. Di conseguenza, se una società finanziaria appare in difficoltà, i suoi obbligazionisti non possono scatenare un "assalto agli sportelli", e il loro comportamento non rischia di innescare il panico fra gli obbligazionisti di altre società. Inoltre, nel momento in cui forniscono i loro capitali a una società finanziaria, gli obbligazionisti generalmente sono in grado di ottenere condizioni contrattuali compatibili con i rischi che corrono. Anzi, la necessità di compensare gli obbligazionisti per i rischi che corrono potrebbe garantire la disciplina di mercato: quando le società finanziarie operano secondo modalità che si prevede determineranno un incremento del rischio in una fase successiva, devono partire dall'idea di "pagare" tali modalità, ad esempio mediante tassi di interesse più alti o condizioni più rigide.
Ma questa fonte di disciplina di mercato cesserebbe di funzionare se vi fosse la percezione che l'ombrello protettivo del governo si estende anche agli obbligazionisti. Se gli obbligazionisti sapessero che il governo li proteggerà, non insisterebbero per ottenere condizioni contrattuali migliori a fronte di rischi maggiori. Il problema dell'"azzardo morale" - un operatore di mercato si assumerà rischi eccessivi se non prevede di subire fino in fondo le conseguenze delle proprie azioni - viene comunemente citato come ragione per non proteggere gli azionisti delle società soccorse. Ma per lo stesso motivo non bisognerebbe proteggere gli obbligazionisti.
Pertanto, quando una grande società finanziaria si trova in guai seri, tanto da necessitare di un salvataggio pubblico, il governo dovrebbe essere pronto a garantire una rete di sicurezza per i correntisti e i creditori affini a questi ultimi, ma non per gli obbligazionisti. In particolare, se si erode il capitale proprio della banca, lo stato non dovrebbe fornire (direttamente o indirettamente) fondi per rafforzare il cuscinetto a disposizione degli obbligazionisti. Al contrario, le obbligazioni vanno, almeno in parte, convertite in capitale proprio, e qualunque iniezione di nuovi capitali da parte del governo deve avvenire in cambio di titoli che godono di status prioritario rispetto a quelli degli obbligazionisti esistenti.
I governi, oltre a evitare di proteggere gli obbligazionisti dopo l'evento, al momento di mettere a punto il piano di salvataggio, dovrebbero assumere con chiarezza questo impegno già prima. Alcuni dei benefici di una linea del governo che induce gli obbligazionisti a insistere per ottenere condizioni più rigide quando le società finanziarie si prendono rischi più grandi, andrebbero in parte perduti se gli obbligazionisti fossero convinti che il governo proteggerà i loro interessi nel caso di bailout.
In altre parole, i governi dovrebbero istituire le linee guida per gli interventi di salvataggio prima che si presenti la necessità d'intervenire, invece di prendere decisioni caso per caso quando le società finanziarie finiscono nei guai. La politica migliore è escludere categoricamente gli obbligazionisti dal novero dei potenziali beneficiari dei salvataggi pubblici. In questo modo, non solo si eliminerebbero, almeno in parte, i costi non necessari dei salvataggi pubblici, ma i salvataggi stessi diventerebbero meno frequenti.

* Lucian Bebchuk è professore di economia e finanza ad Harvard

(Traduzione di Fabio Galimberti)

21 Ottobre 2009
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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